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La «Torino noir» vista e narrata da Milo Julini
L'uccisione della pensionata Lidia Donno e del suo cane volpino (Seconda e Ultima Parte)
Articolo di Milo Julini
Pubblicato in data 15/07/2021

Leggi qui la Prima Parte

I forti timori che avevano indotto Lidia a un atteggiamento molto prudente vengono confermati dal custode della S.I.L.O., Natale De Laurentis di 61 anni, già collega del suo convivente.

Interrogato martedì 12 aprile, il custode dice di aver visto per l’ultima volta Lidia mercoledì 6 aprile, molto preoccupata. Lei gli ha narrato della strana telefonata di un sedicente tassista e ha ripetuto più volte di temere una rapina.

Poi il custode sbotta: «Ma allora, come è riuscito l’assassino a farsi aprire da una donna che stava così in guardia? Pure a me era difficile che aprisse dopo le 18, eppure mi conosceva bene. Il delinquente deve avere escogitato un trucco molto ingegnoso».

Il custode riferisce poi che nel mattino del sabato della scoperta dell’omicidio, verso le 9:00, si è presentato un giovanotto che sosteneva di essere nipote di Lidia. Lo ha pregato di aiutarlo a controllare se la zia stava bene, dicendo: «La zia non risponde al telefono, forse le è successa una disgrazia». Hanno suonato e chiamato invano, e dopo un po’ il ragazzo se n’è andato. Nessuno l’ha più rivisto, nemmeno dopo la macabra scoperta avvenuta nella notte per intervento della nipote. I parenti di Lidia non hanno riferito di questo episodio agli inquirenti, i quali invitano - invano - il sedicente nipote a presentarsi.

Il custode parla poi di un idraulico che all’inizio del mese è andato da Lidia per ripararle qualcosa in cucina. Viene identificato come Domenico Cozza, di 17 anni.

L’interrogatorio di questo testimone - che ha lavorato nella cucina di Lidia tre giorni prima dell’omicidio - conferma ulteriormente i suoi timori e li anticipa rispetto al famigerato mercoledì 6 aprile.

L’idraulico racconta che la donna viveva nel terrore di una rapina. Gli ha detto di strane telefonate, certamente più d’una, giunte nella settimana precedente e, in modo confuso, gli ha parlato di un tassista che l’ha chiamata più volte con la scusa della patente smarrita da suo marito. Il giovane testimone dichiara: «Difficile rammentare tutto per filo e per segno, di una cosa sono certo. L’anziana signora mi ha ripetuto fino alla nausea di essersi premunita contro i banditi, di vivere barricata, che non avrebbe mai aperto a nessuno se non era più che sicura di chi si trattava. E non mentiva, per entrare da lei sono stato costretto ad una lunga attesa: ha fatto un controllo telefonico a casa mia, mi ha squadrato con attenzione dalla finestra, poi finalmente ha schiuso la porta».

Secondo questo testimone, l’atteggiamento circospetto di Lidia si sarebbe manifestato già qualche tempo prima che lei ne parlasse alla sorella.

Ci chiediamo perché non si fosse rivolta ai parenti torinesi e pensasse di risolvere la situazione in modo autonomo.

Col passare dei giorni e col proseguire delle indagini, il caso di Lungodora Savona si ingarbuglia sempre di più.

La domanda ricorrente sul perché Lidia abbia aperto al suo assassino è diventata ancor più assillante e priva di una soddisfacente spiegazione dopo le dichiarazioni dei due importanti testimoni.

Così pare assodato che abbia fatto entrare lei il killer perché non aveva motivo di temerlo e lui non abbia dovuto ricorrere a stratagemmi per vincere la sua diffidenza. Penetrare di forza nell’appartamento sarebbe stato pressoché impossibile. Ergo lei conosceva il suo assassino.

La perquisizione degli esperti della Scientifica fa emergere un importante elemento: non sono state trovate le chiavi dell’alloggio. Secondo la razionale spiegazione della polizia, per entrare nel cadente edificio bisogna superare la porticina che dà sulla strada, sempre chiusa. Le chiavi le aveva solo Lidia. Il killer non è giunto inatteso, la pensionata è scesa ad aprirgli il battente, l’ha preceduto senza sospetti al primo piano, ha aperto anche l’uscio dell’appartamento. Dopo il massacro, ha dovuto prendere il mazzo di chiavi per aprire la porticina della strada.

Questa diversa lettura dei fatti tiene conto di un dato incontrovertibile: la cautela quasi maniacale della donna nell’aprire ad estranei. Può anche spiegare le telefonate del preteso tassista: potrebbero essere opera dell’assassino per terrorizzare la donna che si fidava di lui e che, sempre più impaurita, avrebbe accettato il suo aiuto per svelare l’enigma del persecutore telefonico.

Il ragionamento di certo fila, ma dare un volto a questo misterioso personaggio che Lidia conosceva e non temeva si rivela mission impossible. E del resto inserire un killer con queste caratteristiche nella vita della donna non è facile, anche perché, a ben considerare, la conosciamo soltanto dalle affermazioni di alcuni parenti e conoscenti che la frequentavano in modo superficiale.  

Qualche aspetto della sua vita potrebbe essere rimasto in ombra, anche una eventuale relazione con un personaggio rivelatosi poi un feroce killer. Le cronache insistono sulla sua vita isolata, ma questo secondo i parenti che lei non frequentava.

Non si capisce nemmeno se fosse ancora di aspetto piacente. Si trova soltanto un cenno in questo senso, formulato dal cronista Renato Romanelli: «La donna è piccola: paziente cura del corpo le consente di dimostrare forse meno dei suoi 70 anni, anche se, due anni fa, la morte dell’uomo con cui è vissuta l’ha turbata e il dolore ancora l’accompagna» (La Stampa, 12 aprile 1977). Di certo gli inquirenti avranno approfondito questo aspetto, senza risultati apprezzabili...(2).

Oltre alle osservazioni della Scientifica prima esposte, La Stampa del 14 aprile 1977 scrive che nel pomeriggio del giorno precedente, Lidia è stata sepolta con la partecipazione di una decina di familiari.

La pietra tombale scende anche sulle indagini: il giornale parlerà di Lidia Donno soltanto per citarla nei periodici elenchi di casi insoluti di donne uccise a Torino che attendono ancora verità e giustizia.

(2) Le indagini sono state condotte dalla Squadra Mobile della Questura di Torino, al tempo diretta dal dottor Alessandro Fersini. La Polizia Scientifica aveva come dirigente il dottor Luigi La Sala, che poteva vantare buoni successi investigativi come nel caso del rapimento di Carla Ovazza (1976) e dell’uccisione del commissario Vincenzo Rosano (2 febbraio 1977).

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