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A Torre del Mare: giochi e medaglie
Mitica Torre del Mare degli anni sessanta e settanta, quando i premi dei tornei erano delle belle medaglie che oggi ci emozioniamo a rivedere.
Articolo di Patrizia Lotti
Pubblicato in data 23/04/2022

Noi, nati in Europa occidentale negli anni cinquanta e sessanta del secolo scorso, ci siamo a buon diritto considerati una generazione fortunata fino all’inizio del 2020; nessuna guerra e nessuna epidemia avevano turbato le nostre vite. E’ vero, c’erano stati gli anni di piombo, gli scandali di Mani Pulite, gli attentati alle Torri Gemelle, sulla metropolitana di Londra, di Madrid, in Giappone  e certo sapevamo che in molta parte del mondo, anche nella ex-Jugoslavia, così vicina ai nostri confini, si combattevano guerre spaventose e i dissidenti nei regimi totalitari erano torturati e uccisi.

Lo sapevamo, ma queste atrocità non facevano parte della nostra vita quotidiana, non ci impedivano di continuare a lavorare, a fare progetti o ad andare in vacanza. Poi è arrivato il Covid-19 che ha sicuramente cambiato le nostre vite; e ora, la guerra Ucraina. E possiamo ancora dirci fortunati a poter definire così, oralmente e per iscritto, l’invasione russa dell’Ucraina. Siamo diventati la generazione ex-fortunata. Viviamo tutti un momento difficile, in cui non provare preoccupazione mi pare francamente irragionevole, ma è proprio in situazioni come queste che, a mio avviso, trovare un’ancora di salvezza dentro di noi, nella nostra umanità, nella nostra anima, può fare la differenza e può forse permetterci di uscire dalla sfera del particolare per attingere a quella dell’universale, a perderci e confonderci nell’infinito spaziale e temporale per vedere la realtà nella sua autentica dimensione.

E magari non trovarla più così brutta. Ognuno ha la sua ancora, se sa cercare bene dentro di sé. La mia si chiama Torre del Mare, quella di quand’ero bambina e ragazzina, quella degli anni sessanta e settanta. Anche gli anni successivi sono stati bellissimi, ma la magia dell’infanzia e dell’adolescenza, per me, è sempre un balsamo contro ogni tipo di bruttura. E allora via, lasciamoci andare e sono sicura che ne uscirò più forte.

C’era una volta il tennis, a Torre del Mare;  non uno, ma due campi da tennis, un altro dove si giocava a bocce e tutt’intorno panchine sempre affollate da noi ragazzini che salivamo dalla spiaggia con il pulmino azzurro delle sette e mezza e ci fermavano a guardare gli amici che giocavano sul campo in terra battuta.

Immancabile anche una sosta al  negozio di Renato, lì vicino, l’unico alimentari che sia riuscito a reggere a lungo nella nostra Torre, certo anche grazie ai suoi mitici polli allo spiedo che noi torremarini veri consideriamo insuperabili.

Ci proviamo, ad assaggiarne altri, ma quelli di Renato, che ormai ci guarda dal cielo, vincono sempre. Si compravano patatine e Nutella, un connubio strano ma che a molti di noi piaceva. Delle piccole confezioni di Nutella che forse esistono ancora, anche se oggi tutto deve essere grande, grosso, di più, di più, sempre di più. Noi amavamo le nostre piccole Nutelle perché riuscivamo a mangiarle velocemente prima di tornare a casa e senza che la mamma lo sapesse, se no ci avrebbe sgridato. Intorno ai campi c’erano diverse piante di albicocche che spesso Vittorio, il contadino che gestiva, si fa per dire, il nostro tennis, ci regalava quando andavamo a giocare di mattina presto.

E soprattutto noi ragazze ci andavamo spesso, per non mostrare tutta la nostra inesperienza agli amici più bravi che però riuscivano quasi sempre a scoprire i nostri piani; quante volte li abbiamo trovati lì ad aspettarci alle sei di mattina, giusto per il gusto di prenderci in giro. E quante risate ci siamo fatti insieme! Poi c’erano i tornei veri e propri, quelli seri a cui qualche ragazzo più grande ogni tanto iscriveva anche me, che sapevo a malapena tenere la racchetta in mano, anche lì giusto per prendermi in giro, immagino.

Ma quante risate anche durante la prima ( e ovviamente unica ) partita che ero costretta a fare. Insomma, al tennis ci si divertiva molto e si poteva anche vedere qualche bello scambio di palla. I premi dei tornei erano delle  medaglie d’oro su cui era raffigurata da un lato la torre di vedetta da cui Torre del Mare prende il nome e dall’altra  si legge la scritta Torre del Mare. Una medaglia preziosa che molti dei genitori di noi torremarini veri hanno portato al collo per anni. Un motivo in più per amarle, quelle medaglie.

Ma quella che mi è capitata in mano poco prima di Pasqua è più semplice, di metallo, meno preziosa e più colorata. Da un lato una vela  sul mare che sembra trasportare un grande fiore e sul retro la scritta Torre del Mare 1968. Mi pare si tratti di una delle  medaglie che vincevano i bambini e i ragazzini durante i giochi che si svolgevano sulla spiaggia: gare di nuoto, di corsa, corsa nei sacchi, piccoli tornei di calcio che venivano organizzati da genitori volonterosi e da  qualche generoso  ragazzo un po’ più grande. Un mondo tranquillo e sicuro, un luogo dove tutti si conoscevano e l’imperativo categorico era divertirsi serenamente durante le nostre lunghissime estati che non cambierei con nessun viaggio al mondo. Tanto poi, crescendo, abbiamo viaggiato lo stesso, no? Era il tempo la nostra grande ricchezza, il tempo che oggi nessuno ha più, per pensare, per leggere, per annoiarsi anche, perché no?

Quanti talenti sono stati scoperti in un pomeriggio di noia, quanti hanno incominciato a leggere l’Odissea perché erano soli in casa e quello era l’unico libro sulla mensola, salvo poi non abbandonarlo più per tutta la vita, quanti pensieri straordinari son stati formulati perché non bisognava correre da una parte all’altra del mondo come delle trottole impazzite?  

Insomma le mie medaglie mi hanno portato in un mondo che non c’è più, in un campo da  tennis oggi ridotto a sgraziato parcheggio, circondato da un’inferriata arrugginita che grida vendetta ai passanti, ma sento di non avere sprecato il mio tempo e di aver imparato a guardare con occhi diversi, più consapevoli ma meno cupi, il male che vedo intorno a me.           

Tranne un paio di cosette, sia chiaro; quel parcheggio al posto del campo in terra battuta e quell’inferriata, no, non si possono proprio né vedere né tollerare.

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