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Politica Nazionale
Giustizia e democrazia
Riflessioni sul referendum di riforma delle modalità di elezione del Consiglio Superiore della Magistratura
Articolo di Andrea Farina
Pubblicato in data 10/06/2022

Domenica 12 giugno gli elettori saranno chiamati a pronunciarsi su cinque quesiti riconducibili all’ambito della giustizia.

Innanzitutto occorre premettere che, quando un popolo venga chiamato a esprimersi, appaia sempre una sconfitta per i cittadini rinunciare a far sentire la propria opinione, qualunque essa sia. Inoltre, soprattutto il referendum che riguarda la riforma dell’elezione della componente togata del Consiglio Superiore della Magistratura (CSM) assume rilievo con riguardo al complessivo assetto della democrazia “made in Italy”.

Provo a spiegarmi meglio.

Quando Montesquieu (1689-1755) elaborò la sua teoria della “tripartizione dei poteri” – che mirava a evitare eccessivi accentramenti di potere nelle mani di poche persone –, concepì un sistema istituzionale nel quale le facoltà di governo (assegnate al re) risultassero separate da quelle legislative (affidate a un parlamento), a sua volta differenziato da una magistratura (avente il compito di far osservare le norme giuridiche) non asservita né al potere esecutivo né a quello legislativo.

Tuttavia, con l’avvento delle democrazie di massa e la sostituzione (in diverse nazioni) delle monarchie con Presidenti della Repubbica, la distinzione tripartitica ha, mano a mano (e in larga misura) perso la sua originaria funzione, per diventare (nella sostanza) una “bipartizione dei poteri” e talvolta neppure quella.

Ad esempio, la nostra Costituzione prevede che l’esecutivo e il legislativo siano tra loro legati da un “rapporto di fiducia”, formalmente idoneo a garantire ”legittimità democratica” a un organo – il Governo – che, al pari del Presidente della Repubblica, non è di diretta nomina da parte degli elettori.

Non esiste poi un re che governa e un Parlamento che scrive le leggi, ma un sistema politico che ha i propri rappresentanti sia nel Parlamento sia nel Governo e dove, in seno al secondo, siedono i principali esponenti dei partiti di maggioranza che godono di maggiore peso rispetto alla generalità dei parlamentari. Infine, l’introduzione di un sistema che ha privato gli elettori della possibilità di esprimere preferenze tra i diversi candidati, ha così incentrato nelle mani di pochi leader la selezione della classe parlamentare, la quale dipende, spesso in tutto e per tutto, dalle decisioni dei rispettivi capi.

Riprova della centralità del Governo (che, se non rappresenta un unisono con il Parlamento, poco ci manca, soprattutto in governi di large intese) viene da una disamina della produzione legislativa.

Prendendo in esame il lasso temporale intercorso dal marzo 2018 all’analogo mese del 2022 si ricava che il Parlamento italiano abbia approvato 168 leggi ordinarie, a fronte di 135 Decreti Legge e 147 Decreti legislativi questi ultimi di emanazione del Governo. Delle leggi poi approvate dal Parlamento, 115 sono il frutto di iniziativa governativa e solo 51 parlamentare.

In sintesi, se sommiamo i Decreti legge, i Decreti legislativi e le leggi di iniziativa governativa è di palmare evidenza che non sia il Parlamento a scrivere la generalità delle norme giuridiche (come direbbe la Costituzione), bensì il Governo, nelle cui mani (una ventina di persone) si concentra una quantità enorme di potere, gestendo il Governo, oltreché la spesa pubblica, anche una pletora di altre strumenti economico-fiscali.

Appare dunque evidente che, laddove si voglia mantenere un equilibrio tra poteri idoneo a evitare le derive autoritarie ben lumeggiate da Montesquieu (e da un’autorevole tradizione del pensiero liberale), diventi essenziale, oltreché ripristinare una certa centralità del Parlamento, altresì assicurare autorevolezza e indipendenza alla magistratura che, all’opposto, però, non deve diventare una struttura a sé, autoreferenziale e priva di ogni verifica sul proprio operato, pena conseguenze nefaste.

Focalizzato il punto d’arrivo, appare opportuno tratteggiare – seppure in sintesi – quali siano gli intenti a cui mira il referendum che propone la parziale riforma dei criteri d’elezione della componente togata del Consiglio Superiore della Magistratura e i verosimili esiti di una vittoria del sì.

Procedendo con ordine, il CSM – che è organo di rilevanza costituzionale – risulta composto da 27 membri, di cui tre di diritto (rispettivamente rappresentati dal Presidente della Repubblica, dal Primo Presidente della Corte di Cassazione e dal Procuratore generale presso la Corte di Cassazione) e 24 elettivi. Di questi ultimi, i 2/3 vengono scelti dai magistrati, il restante terzo dal Parlamento riunito in seduta comune.

In questo momento, un giudice che voglia candidarsi a far parte del CSM, per presentarsi, deve ottenere a proprio sostegno dalle 25 alle 50 sottoscrizioni di suoi colleghi. Viceversa, se vincesse il “sì”, tale previsione decadrebbe.

Il referendum mira così a individualizzare le candidature e, dunque, a ridimensionare il ruolo di quelle che comunemente vengono definite le “correnti”, ossia aggregazioni di magistrati che, in parte per via della richiamata necessità di raccolta firme, in parte per comunanza di visione, si riconoscono in una medesima concezione della magistratura che spesso risulta accompagnata da similari simpatie di orientamento politico.

Volendo offrire una panoramica di maggiore respiro, in magistratura le correnti nascono tra la fine degli anni Cinquanta e gli inizi degli anni Sessanta dello secolo scorso.

Infatti, proprio in quel periodo, a una precedente mentalità prioritariamente ancorata al ruolo ricoperto (soprattutto se di Cassazione) e all’anzianità di servizio, grazie anche al contributo della Costituzione (che all’art. 101 prevede che i giudici italiani risultino “soggetti soltanto alla legge”), si sostituisce l’idea di una magistratura nella sua sostanza abbastanza paritaria e policroma; egalitarismo e pluralismo che il confronto (che talvolta divenne scontro) tra le correnti – che in quei decenni prendevano il nome di “Magistratura indipendente”, “Terzo potere” e “Magistratura democratica” – ha certamente agevolato, con riflessi in molti casi positivi su aperture nei confronti di diritti civili che hanno finito per essere riconosciuti prima nelle aule giudiziarie che in sede parlamentare.

Purtuttavia, l’altra faccia della medaglia (che trova acme negativo nello scandalo seguito al c.d. “caso Palamara”) è stato rappresentato da un correntismo che, talvolta, non ha dimostrato la necessaria autonomia dagli schieramenti politici (basti consultare le intercettazioni telefoniche del “caso Palamara” per ottenerne riscontro), incrinando quell’indipendenza e necessario prestigio che invece la giustizia deve avere.

Che la vittoria del “sì” al referendum sia idonea a eliminare le distorsioni del correntismo, questo solo il tempo potrà effettivamente dirlo. Certo è che le premesse sui cui, almeno in parte, quelle storture hanno poggiato ne risulterebbero sminuite, come sicuro è che, dopo il “caso Palamara”, una qualche riforma dei meccanismi di funzionamento del CSM vada pur predisposta. Molto dipenderà da come gli elettori domenica si esprimeranno, lasciando inalterata la situazione o, viceversa, imboccando la strada del cambiamento.

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