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L’Italia in Libia (1912-1943)
Una veduta dell’Hammada, Acquerello di Ernesto Heyn
La lunga lotta per la Quarta Sponda (di Aldo A. Mola)
Articolo di Milo Julini
Pubblicato in data 03/07/2022

Quando l’Italia era uno Stato indipendente...

L’ultima dimostrazione di piena sovranità dell’Italia risale a 110 anni addietro con l’“impresa di Libia” iniziata il 29 settembre 1911 e conclusa con la pace di Losanna il 18 ottobre 1912. Il Re, Vittorio Emanuele III, e il governo, presieduto dallo statista piemontese Giovanni Giolitti affiancato agli Esteri dal siciliano Antonino Paternò Castello marchese di San Giuliano, decisero in piena autonomia tempi e modi della guerra contro l’impero turco-ottomano, da secoli nominalmente sovrano su Tripolitania e Cirenaica. Nel corso del conflitto, per costringere il nemico ad arrendersi, il 4 maggio 1912, il generale Giovanni Ameglio (Palermo, 1854 - Roma, 1921), massone, intraprese la liberazione di Rodi e del Dodecaneso dal secolare dominio turco. Quell’operazione speciale, deliberata dal governo senza avallo preventivo di alcuno Stato, fu tra i più importanti successi dell’Italia e ne fece, a tutti gli effetti, una potenza nel Mediterraneo.

La guerra venne decisa da Vittorio Emanuele III in un incontro segreto con Giolitti nel Castello di Racconigi (Cuneo) il 16 settembre 1911. Alla partenza da Roma per il Piemonte, per garantire la massima riservatezza al colloquio, Giolitti fece credere alla moglie, Rosa Sobrero, che sarebbe andato a Bardonecchia, ove da anni affittava un villino per le vacanze estive (ne ha scritto Antonella Filippi in Giolitti a Bardonecchia, 2021). Invece da Torino si recò in incognito nella sua villa di Cavour, ove venne riservatamente prelevato in auto dal generale Ugo Brusati, aiutante di campo del Re, e recato a Racconigi per definire le“cose da fare”, a cominciare dalla dichiarazione di guerra, a Camere chiuse.

Fu un azzardo?

Gli studi di storia coloniale costituiscono una sorta di orto separato dalla storia politico-militare generale e risultano spesso ispirati da pregiudizi e/o “principi” giuridici, ideali e morali maturati dopo la sconfitta dell’Italia nella seconda guerra mondiale e l’azzeramento del suo impero coloniale, risalente in massima parte all’età pre-fascista. In molti casi si sostanziano nella deplorazione della colonizzazione e in narrazioni anacronistiche, culturalmente più dannose che inutili. Il centenario dell’impresa di Libia coincise con il crollo e l’orrendo linciaggio di Gheddafi (20 ottobre 1911), con l’emarginazione dell’Italia dall’“altra sponda” e la ripresa della tratta di “migranti” tuttora in corso: ingredienti che sconsigliarono la sua rivisitazione storiografica.

Lo osservò anche Nicola Labanca in “La guerra italiana per la Libia, 1911-1931” (il Mulino, 2012, p. 7). Nel 2022, il 75° del trattato di pace che il 10 febbraio 1947 calò la saracinesca sulle aspirazioni dell’Italia a continuare la sua “missione civile” nelle colonie ha registrato pochi studi innovatori sulle colonie italiane. Tra le eccezioni vanno menzionati il saggio di Alberto Alpozzi “Bugie coloniali. Leggende, fantasie e fake news sul colonialismo italiano” (ed. Eclettica) e “Mogadiscio 1938. Un eccidio di italiani fra decolonizzazione e guerra fredda” di Annalisa Urbano e Antonio Varsori (ed. il Mulino). Motivo in più per tornare a riflettere sulla lunga lotta dell’Italia “per” e “nella” Quarta Sponda, come emblematicamente fu detta la Libia. L’espansione coloniale è parte integrante della storia generale dell’Italia, al pari di quella degli altri Stati europei, anche territorialmente minuscoli come il Belgio e l’Olanda, che ebbero vasti imperi, ne trassero immense ricchezze e trattarono gli “indigeni” con metodi infami.

 

La “missione” dell’Italia tra errori e successi

Tre lustri dopo la sua proclamazione (1861), con l’ascesa della Sinistra storica al governo (1876) il regno d’Italia imboccò la via delle conquiste coloniali, comune a tutti gli Stati rivieraschi europei, con la sola eccezione dell’impero d’Austria-Ungheria, forte di porti bene attrezzati (Trieste e Fiume) e di una politica commerciale tra le più solide del Vecchio Continente. Sin dagli albori del Risorgimento il teologo neoguelfo Vincenzo Gioberti e il repubblicano Giuseppe Mazzini rivendicarono la missione civile dell’Italia “oltremare”. Profondamente delusa e allarmata dall’imposizione del protettorato francese su Tunisi (1881), il giovane regno cercò nel Mar Rosso “le chiavi del Mediterraneo”, come argomentato da Pasquale Stanislao Mancini: dall’acquisto della baia di Assab allo sbarco a Massaua (1882-1885), dall’annessione dell’Eritrea alla prima guerra contro l’Etiopia di Menelik (1894-1896), chiusa con la sconfitta degli italiani presso Adua.

A parte l’elevazione della Somalia a colonia (1907), di espansione non si parlò più. Però con gli accordi italo-francesi del 1902 Roma si premurò di ottenere la prelazione sulla costa libica: un progetto accelerato dopo la conferenza di Algeciras e il trattato italo-russo di Racconigi (1909). A cospetto del protagonismo coloniale dell’impero di Germania e dell’accordo franco-spagnolo per la spartizione del Marocco, a prescindere dalle pressioni dei nascenti nazionalisti italiani e delle mene del vaticanesco Banco di Roma, il re ritenne che la monarchia sarebbe stata screditata se la Libia fosse stata occupata da un’altra potenza. Bisognava dunque averla, per quanto povera fosse.

Benché San Giuliano temesse che la sconfitta dei Giovani Turchi al potere a Istanbul potesse scatenare conflitti nei Balcani, Giolitti volle la rottura diplomatica con l’impero turco per dichiarare guerra (29 settembre) e ordinare lo sbarco a Tripoli (5 ottobre, cui seguirono Bengasi, Derna, ecc.). Come poi spiegò, fu una “fatalità”, che comportò la “necessità” di ricorrere alle armi. La “mobilitazione speciale” (sic!) e l’invio di un corpo di 35.000 uomini risultò inferiore al bisogno. Malgrado le informazioni fornite da Enrico Insabato, a contatto con gli islamisti ortodossi della Senussia, Roma compì due errori clamorosi. Contò sulla precipitosa fuga della guarnigione nemica (appena 5.000 militari) e, peggio ancora, sulla solidarietà degli arabi contro i turchi. Invece molti libici aderirono alla “guerra santa” indetta dal Sultano turco contro gli invasori, “infedeli”.

Il 23 ottobre truppe turche e volontari libici assalirono gli italiani a Sciara Sciat e massacrarono 370 soldati e 8 ufficiali. Una noticina a pagina 161 della relazione in cinque volumi sulla “Campagna di Libia” pubblicata dal Ministero della Guerra nel 1922 sintetizza i «supplizi inenarrabili cui furono sottoposti i nostri soldati caduti nelle loro mani: mutilazioni, acciecamenti, crocifissioni, evirazioni, sepolture di vivi, strazio di cadaveri». Atrocità di cui «rimase vittima anche personale sanitario intento alla sua pietosa missione». La risposta fu violentissima: in pochi giorni si susseguirono fucilazioni e impiccagioni (almeno 2.000 persone, compresi donne e ragazzi) e la deportazione di “ribelli” in isole italiane (Tremiti, Favignana, Ponza, Ustica...). La proclamazione della sovranità italiana su Tripolitania e Cirenaica venne bollata come nuova crociata, anche per la confusione tra la croce dello scudo sabaudo e l’Italia, Stato non solo laico ma all’epoca persino “scomunicato”.

Gli “Alleati” (Germania e Austria-Ungheria) non osteggiarono scopertamente l’Italia ma non la aiutarono affatto; la Francia tramò ai danni di Roma; Londra “prese atto”, come gli USA, già intenti a studiare le risorse della Libia. I turchi organizzarono la guerriglia con ufficiali di elevate capacità, come Enver Bey e Mustafà Kemal, futuro Ataturk. Per prevalere gli italiani spostarono la guerra dalla costa libica a quella della Turchia stessa. Dopo l’occupazione di Rodi e del Dodecaneso arrivarono a tranciare i cavi telegrafici sottomarini (ne venne mandato uno spezzone a Giolitti) e si spinsero nei Dardanelli. Memore delle osservazioni compiute di persona in navigazione nell’Egeo, nell’ottobre 1912 Vittorio Emanuele III dettò a Giolitti i punti della Turchia europea da bombardare. 

In un anno l’Italia destinò alla Libia circa 200.000 uomini. Lamentò 2.000 morti e 4.200 feriti. Al termine di lunghi preliminari a Ouchy (per parte italiana ai ministri Pietro Bertolini e Guido Fusinato si aggiunsero Giuseppe Volpi e Bernardino Nogara) la pace di Losanna riconobbe l’autorità califfale del Sultano dell’impero turco in Tripolitania e Cirenaica: un equivoco perché per gli islamici non vi è separazione tra potere religioso e politico-militare. La Libia ebbe governatori militari. I propositi di conciliazione con la popolazione araba coltivati da generali lungimiranti come Ameglio cozzarono con errori marchiani, come il cannoneggiamento della tomba di Sidi Rafi, venerato come santo dagli islamici.

I progetti di valorizzazione economica dello “scatolone di sabbia” (come la Libia venne polemicamente detta da Gaetano Salvemini) vennero vanificati dalla sproporzione tra investimenti e profitti. Anche il geografo Arcangelo Ghisleri, massone, nell’imponente opera “Tripolitania e Cirenaica dal Mediterraneo al Sahara” (dicembre 1911) convenne che i requisiti geofisici e climatici non facevano bene sperare nel futuro. Altrettanto concluse la Commissione presieduta da Leopoldo Franchetti.

L’impresa ebbe un costo esorbitante per l’erario, ma risultò vincente sotto il profilo politico internazionale e interno. Il governo ebbe il sostegno di cattolici, socialisti riformisti, parte dei repubblicani e persino di Teodoro Moneta, premio Nobel per la pace. Per valorizzare la Quarta Sponda, in massima parte ignota, l’Italia aveva bisogno di tempo, denaro e investimenti internazionali. Ma due anni dopo, a fine luglio 1914, la Grande Guerra sconvolse tutti i piani.

Durante la Grande Guerra

L’arrangement (= accomodamento, non trattato né “patto”) di Londra del 26 aprile 1915 promise all’Italia sovranità piena e definitiva su Rodi e il Dodecaneso. Messa all’incasso l’adesione dell’Italia all’intervento, appena dieci giorni dopo il presidente del governo francese offrì segretamente lo stesso “bottino” al principe Giorgio di Grecia in cambio dell’intervento ellenico a fianco dell’Intesa. L’Italia aveva firmato in gran segreto. E in gran segreto la si poteva defraudare. I franco-britannici violavano i patti poco prima sottoscritti. Lo stesso però fece il governo italiano che dichiarò guerra alla Germania solo il 28 agosto 1916 anziché il 24 maggio 1915, come chiesto dall’accordo di Londra. Con la sua firma il governo italiano, presieduto da Antonio Salandra con Sidney Sonnino agli Esteri, si ritenne libero dai vincoli contemplati dalla pace di Losanna.

Le colonie posero gravi problemi ancor prima della conflagrazione europea vera e propria. Sin dal novembre 1914 il nuovo ministro delle colonie Ferdinando Martini presentò al collega degli Esteri, Sidney Sonnino, le “memorie” approntate da Giacomo Agnesa, che premeva per l’acquisizione di Gibuti e della costa somala francese per rendere sicura la presenza italiana in quella regione. Sonnino non se ne occupò minimamente. Puntava a una base in Albania per controllare l’Adriatico.

Il 12 novembre il califfo di Istanbul ordinò la guerra santa per la liberazione di tutte le terre islamiche dagli infedeli. Le ripercussioni non si fecero attendere. In Somalia la guerriglia contro gli italiani venne guidata dal mullah in armi da quasi vent’anni. Quel conflitto terminò solo nel 1919 per intervento convergente italo-britannico, che costrinse il mullah ad arroccarsi in un’ansa del fiume Uebi-Scebeli, ove morì nel 1921.

In Eritrea gl’italiani dovettero fare i conti con l’irrequietezza dell’Impero d’Etiopia dopo la morte di Menelik: teatro della contrapposizione fra Ligg Jasu, figlio del ras Michael, tardivamente convertitosi dall’islamismo al cristianesimo, e l’abuna Matteo. Caduto sotto l’influenza turco-tedesca, Ligg Jasu alimentò l’odio dei musulmani contro gl’italiani, puntando ad assalire Somalia ed Eritrea con l’aiuto di Berlino e Istanbul. A sua volta nel febbraio 1915 il negus Michael ammassò 150.000 uomini sul confine con l’Eritrea, senza però assalirla. Il 27 settembre 1916 un colpo di stato acclamò imperatrice la uizero Zeuiditù, terzogenita di Menelik, mise al bando Ligg Jasu e proclamò erede al trono e capo del governo il ventiseienne degiacc Tafari (futuro Hailé Selassié), figlio di ras Maconnen. L’anno seguente, costretto Ligg Jasu a riparare in Dancalia e vinto sul campo il deposto Michael, Tafari si liberò dalle interferenze turco-germaniche. Il commercio dall’interno alla costa eritrea favorì gli approvvigionamenti per l’Italia.

Le conseguenze più gravi della “guerra santa” proclamata dal califfo di Istanbul si registrarono in Libia. Alla vigilia della Grande Guerra la presenza italiana rimaneva circoscritta alle principali città costiere e a centri dell’entroterra comunicanti con una rete di carovaniere sempre insidiate dalla guerriglia turco-ottomana. Su impulso del Sultano turco, il Gran Senusso Sidi Ahmed esh Sherif chiamò alla guerra contro l’occupazione italiana. Il colonnello Giovanni Miani ritenne pertanto necessario colpirlo nel suo stesso territorio, il Fezzan, occupando Nufilia, a 150 km dalla costa. Cozzò tuttavia contro una resistenza invincibile e dovette lasciare in mano avversaria l’intera Sirte orientale, dalla Cirenaica al Fezzan. Quel successo indusse quasi tutti i capi tribù a schierarsi contro l’“occupazione” italiana. Una seconda offensiva di Miani nel novembre 1914 non ebbe maggior successo. Nei mesi seguenti Gadames venne più volte occupata e perduta. Il comando generale di Tripoli deliberò quindi un’offensiva generale per riprendere il controllo delle vie carovaniere. Allo scopo furono lanciate due colonne, una agli ordini del tenente colonnello Gianninazzi, l’altra di Miani. La prima fu costretta a ripiegare, dopo ripetuti attacchi di forze preponderanti.

Gianninazzi stesso rimase ferito. Peggio andò a Miani, che si diresse su Kasr (o Gasr) bu Adi. Quando iniziò il combattimento, Ramadan Sceteui, già nemico aperto degl’italiani, poi loro fiancheggiatore nella spedizione, volse le armi contro la colonna di Miani, che rimase annientata e lasciò in preda al nemico 5.000 fucili, milioni di cartucce, mitragliatrici, artiglieria da campagna, copiosi viveri e la cassa militare. A differenza di quanto scrisse Angelo Del Boca, non costituì «il più grande disastro dell’Italia coloniale». Nondimeno fu una sconfitta che indusse il governatore generale Giulio Cesare Tassone a tirare i remi in barca. Archiviate le speranze di rapida vittoria sull’Austria-Ungheria, il comandante supremo Luigi Cadorna chiese che tutte le risorse belliche fossero destinate “alla fronte”, come poi scrisse nelle “Memorie” recentemente ristampate (BastogiLibri, 2019). A suo meditato giudizio, l’Italia avrebbe riconquistato la Libia vincendo sul Carso. Le colonie facessero da sé. Anche in Libia molte basi e distaccamenti furono abbandonati a sé stessi. Fu il caso di Tahruna, ove nel maggio 1915, poco prima dell’intervento dell’Italia in guerra, si distinsero il tenente colonnello Cesare Billia (ferito continuò a dirigere la difesa sino a quando morì) e Maria Brighenti, moglie del maggiore Costantino Brighenti, assediato a Beni Ulid. Nel corso dell’estrema sortita anche ella venne martirizzata. Fu la prima donna insignita di Medaglia d’Oro al Valor Militare. La notizia della sua morte fu data dagli assassini stessi al marito che, dopo altri giorni di vana resistenza in Beni Ulid, si tolse la vita.

Nei mesi seguenti, sotto l’incalzare della guerra condotta con mezzi crescenti dai libici foraggiati da turchi e tedeschi, la presenza italiana in Libia si restrinse a pochi lembi costieri. L’ex deputato di Tripoli, Suleiman el Barhuni, sbarcò infine da un sottomarino tedesco e si proclamò governatore della Tripolitania. Anche Misurata divenne base della guerra sottomarina germanica nel Mediterraneo. Quando dovettero arrendersi gl’Imperi ottomano e germanico passarono la mano a una pretesa “repubblica della Tripolitania”, con due reggenze militari e quattro capi, fra i quali il sempre infido Ramadan Sceteui, forte del bottino sottratto agl’italiani.

Dopo la Grande Guerra la riaffermazione della sovranità italiana sulla Libia fu lunga e sofferta. Il primo a ottenere risultati sicuri fu Giolitti nel corso del suo quinto governo (1920-1921), nel quale ministro delle colonie fu Giovanni Amendola. A beneficiarne fu comunque una parte della popolazione indigena che apprese che cos’è lo Stato, fondato sull’uguaglianza dei cittadini dinnanzi alle leggi, senza interferenze delle religioni nella loro vita pubblica, nei diritti civili e nelle libertà personali.

Il cammino della “Libia italiana” era però ancora impervio. Dopo la riconquista, che conobbe pagine drammatiche, si concluse con la sconfitta del 1942-1943 degli italo-germanici da parte degli inglesi di Montgomery nella seconda guerra mondiale: un percorso che merita narrazione apposita.

Aldo A. Mola

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