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Oh, Mia Patria! 1861 Un inviato speciale nel primo anno d’Italia
Commento alla recensione di Mario Lombardo del 18 luglio 1990
Articolo di Mauro Bonino
Pubblicato in data 29/08/2022

La consuetudine e forse anche una regola non scritta, suggeriscono che la recensione di un libro la dovrebbe scrivere l’autore che firma la recensione stessa.

In questa circostanza e per le motivazioni che seguono, proponiamo invece la “recensione” scritta da un altro autore, in tempi lontani dalla nostra attualità e precisamente nelle pagine di Storia Illustrata del 18 luglio del 1990.

Proprio per questo motivo che la “recensione” di Mario Lombardo del libro “Oh, mia Patria!” (autore Vito Di Dario – Mondadori Editore) è significativa in quanto offre una valutazione, anche se soggettiva, non condizionata dagli eventi recenti. 

Il rischio di una “visione di parte” esiste in quanto il contenuto del libro è destinato a suscitare condivisioni o valutazioni contrarie. Di certo l’autore mette in evidenza problematiche che sono irrisolte da troppo tempo, che gravano ancora come macigni e che continuano ad essere inspiegabilmente d’impedimento alla crescita civile, sociale ed economica del Paese.

L’Italia unita, dal suo difficile esordio del 1861 ad oggi, non è mai riuscita a essere come l’aggettivo “unitario” e il “progetto risorgimentale” avrebbero dovuto significare dal punto di vista etimologico.

In pratica il concetto “unitario” avrebbe dovuto essere il “catalizzatore” per trovare e riunire, in una sintesi di collaborazione, le risorse umane, intellettuali, tecnologico-scientifiche idonee e necessarie per creare una coscienza civile condivisa dalla nazione, al fine di superare i difficili e storici problemi del Paese e in particolar modo quelli del Meridione d’Italia.

I diversi tentativi della politica a favore del Sud, attraverso l’impegno dei governi che si sono succeduti dal 1861 [vedasi la Questione Meridionale (1873); la Cassa del Mezzogiorno (1950); i Fondi Europei (1957 -2020), le leggi speciali, ecc.], non sono riusciti a eliminare o ridurre significativamente il divario rispetto alla realtà sociale, economico-industriale del Centro-Nord.  In sintesi, coesistono “due mondi diversi” che, ancora oggi, si osservano con diffidenza e che fanno fatica a integrarsi.

Pertanto questo incredibile “divario”, dopo 161 anni, resta ancora un ostacolo non rimosso che penalizza il Paese nella crescita, nella stabilità e che, per trovare una via d’uscita, chiama in causa le responsabilità della società nel suo complesso, dove ogni soggetto pubblico e privato avrebbe dovuto e dovrebbe senza esitazione, agire in modo corretto nel rispetto dell’etica e della legalità.

Inoltre, la logica e il buon senso imporrebbero (ma resta una pia illusione) che la “casta politico-partitica” dovrebbe, sempre e in ogni caso, offrire esempi di onestà, di moralità, di testimonianza per il bene comune, di capacità di buon governo e non certo manifestare la continua tentazione di difendere e di anteporre i propri egoistici privilegi agli interessi generali.

Elementi questi che erano già “clamorosamente carenti, se non fortemente inquinati” nel 1861 e che purtroppo, con amara constatazione che rimarchiamo, continuano con sfrontatezza a riprodursi ancora oggi.

Davanti a questa realtà deludente, riportiamo integramente la “recensione” sopra citata, che ci sembra trovare un filo di continuità con la realtà dei nostri tempi:

 

“… L’Italia unita è nata nel 1861 dalle guerre risorgimentali, e con Torino come capitale. Era un Paese “piccolo”, nel senso che era ancora tutto da costruire, con poche risorse naturali, e in quanto povero e giovanissimo occupava un posto di secondaria importanza tra le potenze europee.

All’interno il nuovo Stato aveva poi moltissimi problemi da affrontare, sia sotto il profilo politico, sia soprattutto sotto quello economico-sociale.

Tra Nord e Sud c’erano differenze stridenti, non soltanto linguistiche e culturali: l’amministrazione borbonica, per esempio, sembrava incompatibile con quella sabauda. Anche tra Toscana e Lombardia, e per tutte le altre regioni. Tanto che lo scrittore e politico Massimo d’Azeglio, dando per scontato che l’Italia fosse fatta, affermava “ora bisogna fare gli italiani”.

Camillo Benso conte di Cavour, primo ministro del primo governo italiano, aveva le sue gatte da pelare. E in quel 1861 stava anche male di salute, cosicché i nostri medici lo sottoposero (per curarlo) a sei successivi e inutili salassi, raccogliendo una valanga di critiche da parte dei colleghi europei per quella loro medievale inefficienza.

Sono cose che sappiamo tutti, di quel difficile primo anno di vita “italiana”. Forse le sole. Perché su quell’epoca ormai lontana esiste una quantità di materiale documentario, ma pochi lo consultano. Così ci si limita alle poche e succinte notizie apprese a scuola dai libri di testo, soffocando in tutta fretta (solo per pigrizia?) la voglia di conoscere come fosse in realtà quella Italia e quale la vita quotidiana di quegli italiani.

Con Oh, mia Patria! non si hanno più scuse. Se si vuole fare un viaggio all’indietro e scorrere su e giù per il nostro Paese, immersi nella realtà del 1861, il libro di Vito Di Dario è indispensabile. Prima di tutto perché, come un inviato speciale che scriva i suoi articoli, Di Dario è andato dappertutto , in quel primo anno dell’Italia unita. Poi perché ha riferito quanto ha osservato con uno stile piacevole e diretto, come solo i buoni giornalisti riescono a fare.

Bisogna precisare che Di Dario è però un giornalista dei nostri giorni, vicedirettore di Espansione e autore di opere televisive, prima di quest’ultima fatica, che ha come sottotitolo appunto 1861 – Un inviato speciale nel primo anno d’Italia.

Il suo viaggio è quindi solo immaginato, ma assolutamente analogo a quello che avrebbe potuto fare un inviato ottocentesco, sempreché quest’ultimo avesse avuto la preparazione culturale e le capacità di scrittura di Di Dario.

Che ha raccolto una massa imponente di materiale storico prima di metterlo in pagina e quindi conosce in ogni sua piega la remota realtà che descrive.

Spiegando che quando si legge “brigantaggio meridionale” si deve invece intendere una vera e propria guerra tra Nord e Sud, combattuta ferocemente e con tutti i mezzi e le armi a disposizione da tutti gli strati sociali.

E Di Dario osserva giustamente che “gli italiani hanno imparato a conoscersi guadandosi dietro al mirino di un fucile”.

Facendo poi notare come tutto, o la maggior parte di tutto quanto sta accadendo adesso nel nostro Paese, anche il peggio, abbia le sue radici nel 1861. Come lo scandalo legato alla costruzione della rete ferroviaria, primo grande appalto pubblico, che portò alla nomina della prima commissione parlamentare d’inchiesta, e naturalmente al primo insabbiamento perché il “caso” si concluse con il salvataggio politico dei primi quattordici deputati accusati di corruzione, e che appunto è stato il primo di altri “casi” consimili.

Dicevano gli antichi con grande scetticismo: nihil sub sole novi, non c’è niente di uovo sotto il sole. Avevano ragione, evidentemente. Ma c’è gran differenza anche tra quello che la storia, nel bene e nel male, ci ripropone. Ed è un merito di Di Dario aver messo a punto un ottimo strumento, a disposizione di tutti, per notare quanto fosse in sostanza diversa la discutibile Italia del 1861 da quella giustamente criticabile del 1990…”.  

Mario Lombardo

 

Tuttavia, tenendo conto di quanto sopra illustrato, siamo tentati anche noi a riproporre la stessa osservazione e formulare la seguente domanda: l’Italia attuale, cioè questa del 2022, è complessivamente migliore di quella “traballante del 1861” e di quella già allora tanto “criticabile del 1990”?

La risposta la riserviamo, come ci sembra giusto, ai lettori.

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