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Il dialogare in italiano è sempre più spoglio e svenduto al “linguaggio universale”
Dal latino all’italiano manzoniano, dai neologismi, agli SMS, agli inglesismi, il tramonto di un lessico testimone della nostra storia.
Articolo di Carlo Mariano Sartoris
Pubblicato in data 29/10/2022

“Quando un popolo non difende più la propria lingua è pronto per la schiavitù” (Remy de Gourmont).

Molte consuetudini stanno cambiando in fretta. Tra le tante, anche il costume di esprimersi con la ricca, musicale e dettagliata lingua italiana che conta un capitale di oltre 250.000 lessemi. Di questi, fino a pochi decenni fa 6500 costituivano il “vocabolario minimo di base”, diventato poi “lessico fondamentale” costituito da sole 2000 parole. Adesso, i figli dell’era digitale, parlano usando da 300 a 800 termini, dei quali, una ventina sono più ripetuti.

Con l’avvento della tecnologia, dei "social" e del linguaggio delle immagini, l’arte della dialettica si è impoverita in fretta. Gli SMS hanno licenziato telefonate e vocali, mentre la TV, che ai suoi esordi ha fatto scuola a un’Italia illetterata, con l’avvento di mille canali ha ceduto a un fraseggio sempre più arido e grossolano.

 

“L’italiano della televisione è diventato un linguaggio trasandato adoperato malissimo” (Tullio de Mauro).

L’italiano è una lingua romanza derivata dal latino “volgare” che nel medioevo ha iniziato a fondersi con le parlate regionali, fino alla lingua ufficiale del Paese decretata nel 1861. Oggi il villaggio globale ha promosso l’inglese “lingua universale”, inserendo frasi anglosassoni con rapido crescendo, dando vita a un frasario nuovo, talvolta adeguato, altre dissonante. Un cliché spesso sfoggiato in pubblico da politici e opinionisti in aria di carisma, spesso risultando astrusi a una grossa fetta di gente che anglofona, ancora non è. 

Infine, da tempo il cinema USA o le serie e gli spettacoli TV, vengono proposti con i titoli in inglese. È l’inizio di una nuova era o un ulteriore passo verso una fusione culturale da parte di un ignoto disegno yankee che tende a occupare il mondo anche da un punto di vista etico e linguistico?

Qualche residuo intellettuale che preserva l’illuministica arte del dubbio, non lo esclude. Noi italiani, maestri del bel canto, poeti e compositori, popolo fondato sulle novelle, sullo scherno e il buonumore, siamo già sottomessi da thriller, horror, rock, dark e Coca-Cola. Non si canta più nelle piazze e nelle vie.

Tutto questo mentre il neo ministro alla cultura Gennaro Sangiuliano caldeggia l’infinito patrimonio artistico ed educativo italiano, il Presidente della Camera Lorenzo Fontana rivendica il pluralismo dei valori della cultura italica e il "Premier" Giorgia Meloni propone lo studio dell'italiano nei paesi della Unione Europea.

A questo punto, un "amarcord" rammenta che fino al 1600 circa, in mezzo Mondo, la lingua ufficiale era il latino, studiato nelle università, idioma condiviso tra mercanti, politici e regnanti, con cui si stilavano libri, accordi e documenti. I dialetti nordici erano considerati barbari, da cui la definizione: “barbarismi”; vocaboli penetrati nel nostro attuale, sollecito interloquire, dettato dalle esigenze di uno sviluppo in accelerazione costante, verso chissà dove ancora non si sa.

 

“La lingua italiana è troppo complessa e lenta: per esprimere un concetto in inglese bastano due parole, in italiano ne occorrono almeno sei” (Sergio Marchionne).

Opinione del pragmatico dirigente d’azienda italiano naturalizzato canadese, apprezzato per il suo acume nel mondo industriale e per i suoi metodi schietti.

Il concetto non fa una piega in un contesto che non richiede né prosa, né lirica poetica, né eleganza emotiva e descrittiva. Ma se i parametri del lessico tendono a essere sempre più ristretti, allora non c’è limite alla praticità. Forse fra breve verrà adottato il Saran Tongo, lingua creola che conta solo 340 vocaboli e si parla in Suriname, piccola Repubblica dell’America meridionale ex colonia dei Paesi Bassi. Pare si capiscano benissimo, con tanti saluti al participio passato, agli aggettivi qualitativi o al genitivo sassone.

Anche per uno scienziato, la capacità di descrivere usando un linguaggio semplice è un criterio di valutazione del grado di conoscenza che è stato raggiunto” (Werner Karl Heisenberg)

 

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