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Cultura
Sui sofisti, retorica antica e moderna
Un contributo del Prof. Antonio Binni, Gran Maestro Emerito della GLDI
Articolo di Giancarlo Guerreri
Pubblicato in data 26/11/2022

 

Potente è la parola per il suo effetto performativo. Con il suo corpo esile, quasi volatile, è infatti atto che modifica direttamente la realtà in quanto produce effetti immediati nel mondo delle ragioni umane. Di seguito, alcuni esempi tratti da letture lontane.

 

Parole oscure sono quelle che, da Delfi, Onphalos del mondo, seduta su di un tripode, aspirando fumi nati da una voragine terrestre, dice la Pizia, governando così uomini e città-stato di tutta la Grecia.

 

Parole che legano sono quelle che seducono, come quelle con cui Calipso, «dalle belle trecce», trattiene, per sette anni, il melanconico Odisseo nell’isola di Ogigia lontano dalla sua patria e dagli affetti (Omero, Odissea, I, 56).

 

Parole struggenti che inducono al pianto, quali quelle recitate e cantate al naufrago Odisseo dal cieco Demodoco quando, presente il Re dei Feaci e la sua corte, rievoca la caduta di Troia e l'inganno astuto del cavallo (Omero, Odissea, VIII, vv. 471-538).

 

Parole di conforto sono invece quelle pronunziate da Patroclo che, mentre infuria la battaglia, riversa sull'animo di Euripido, ferito, all'atto di curare con medicamenti la piaga amara. (Omero, Iliade, XV, 393).

 

Parole di persuasione sono invece quelle del medico che vince la resistenza del malato che non consente interventi invasivi sul suo corpo perché, come insegna il mito, la persuasione è una Dea che ignora il rifiuto.

 

Logos coinvolgente e trascinante è quello del politico che governa il cuore e le menti della folla e i conseguenti comportamenti di chi ascolta. Il Discorso sulla democrazia pronunciato da Pericle - tramandatoci da Tucidide nel II Libro delle Storie - capolavoro dell'arte retorica politica, è forse l'esempio più alto e famoso di quanto potere si nasconda nella parola del politico.

 

Logoi sono le parole pronunciate a voce; ma anche quelle scritte, anch'esse potenti. Anche se, tra oralità e scrittura, Platone, nel Fedro, si pronunzierà poi a favore della prima perché la scrittura è muta all'interrogante, oltre che priva della capacità di difendersi, oggetto infine di ermeneusi diverse, e dagli interpreti coevi, e dagli interpreti futuri. Senza però - come invece spesso si dimentica di precisare - che questa preferenza, nell'ottica di Platone, nulla toglie alla potenza della parola scritta. Se è vero che Platone inaugura un nuovo genere di dialogo (dia-logos), quello filosofico che, anche se scritto, conserva tuttavia ugualmente la natura aperta e problematica insita nella dimensione orale del discutere.

 

Il che permette di osservare, come invece ancora una volta si omette di ricordare, che il dialogo è proprio l'espressione di quello spirito agonistico che, invero, è un tratto essenziale del pensiero greco. La forma dialogica riflette infatti puntualmente la natura agonale del discorso perché, nel dialogo, per definizione, "competono" opinioni contrapposte che mirano a prevalere e superarsi. Donde una raffinata tecnica agonistica. La grandezza di Socrate sarà invece quella di usare il logos per ricercare la verità assieme all'interlocutore in un atteggiamento costruttivo che ha costituito una autentica rivoluzione, paradigma totalmente nuovo, in quanto, non la competizione, non la vittoria dell'agone, quanto invece la ricerca della verità in termini congiunti costituisce il fine ultimo del procedimento progressivo articolato per brevi domande e brevi risposte.

La politica di egemonia perseguita da Pericle  - indiscusso padrone del potere politico in Atene -, come è noto, è la causa della guerra del Peloponneso destinata a durare ben ventisette anni poi conclusasi con una sconfitta talmente cruda da obbligare Atene ad accettare  - nel 404 - un accordo di pace umiliante imponendo lo stesso la rinuncia a ogni politica autonoma.

 

In questo periodo di crisi profonda, non era, all'evidenza, più sufficiente la cultura antica risalente alla Iliade e all'Odissea. Occorreva, al contrario, un ripensamento totale dell'uomo e del suo ruolo nella città. È su questo terreno, infido, scivoloso e difficile, che nascono i sofisti maestri della parola.

 

Insegnano la retorica, ossia l'arte dei discorsi che hanno lo scopo di persuadere con assoluta indifferenza rispetto al vero o al falso che propugnano per essere per loro importante unicamente il convincere un uditorio ad accettare una tesi, non la verità che, stando a Platone, disprezzavano anche solo come idea. Tanto da tenere esercitazioni retoriche nelle quali si faceva prevalere, dapprima, un concetto e, poi, subito dopo, il suo contrario, come bene e male, bello brutto, giusto e ingiusto, in questa ottica rilevando unicamente la inoppugnabilità del discorso, ossia la correttezza del ragionamento, quanto dire, altrimenti ancora il suo assoluto rigore logico nello sviluppo della dimostrazione.

 

Questa assoluta indipendenza dal contenuto - vero  o falso di ciò che si propugna - permette al sofista Gorgia di affermare che la retorica è il bene più grande che si possa possedere (Platone, Gorgia, 45, I, d7-8) perché è causa di libertà per chi la possiede e la esercita in quanto è causa di dominio su tutti gli altri uomini, potendo «persuadere le folle» (Op. cit., 45 2e).

 

Contro questi maestri di tutti quei giovani che intendevano apprendere l'arte dei discorsi persuasivi per prevalere, con gli stessi, nei tribunali e sulla scena politica, in una sfida che non può perdere, se vuole dare, all'uomo del suo presente e quello del suo futuro, la possibilità di vivere secondo verità e giustizia, prende fermo e duro partito Platone che, contro il relativismo più sfrenato tanto etico, quanto politico, predicato dai sofisti, invoca, al contrario, solide certezze e verità stabili.

 

Come, a questo fine, abbia argomentato Platone è troppo noto. Per ragioni di spazio e di opportunità ci asterremo pertanto dal ripercorrere la lunga e sofferta evoluzione di una linea di pensiero che giunge a maturazione con la fondazione della Accademia e con un insegnamento quivi durato un ventennio punteggiato anche da una limpida e prolifica scrittura fondamento della cultura di tutto l’Occidente.

 

Sia allora piuttosto consentito di sottolineare un aspetto diverso sul quale, per l'ennesima volta, non si è invece ancora posto tutta la pur dovuta attenzione.

 

Lasciamo, innanzitutto, la parola direttamente al retore. Gorgia, con enfasi, afferma che la retorica è la «più grande tra le cose umane» (Op. cit., 45, I d 7-8) ed è il bene più grande che si possa possedere perché è causa di libertà per chi la possiede e l’esercita in quanto causa di dominio su tutti gli altri uomini. Nello stesso tempo, il retore non manca però di sottolineare che, di quell'arte, si deve fare uso con giustizia, così come si deve usare qualunque altro strumento di lotta. Donde l'esempio significativo: "chi ha appreso il pugilato (…) non per questo deve colpire, ferire, uccidere gli amici" (Op. cit., 456 b7-d2). Da qui la conclusione, logicamente corretta, che, se taluno, appresa la retorica, se ne avvale poi per distruggere la reputazione dei medici e di altri professionisti, è giusto "odiare ed esiliare e uccidere chi", di quell'arte, non ha fatto "un uso corretto, non il maestro" che "ha trasmesso l'arte per uso giusto" (Op. cit., 484 bI).

 

Come è, dunque, così comprovato, nell'arte di persuadere, secondo Gorgia, non v’è nulla di immorale. Tanto è vero che, da questo profilo, Platone non muove alcuna censura al retore, trattato al contrario con tutto il rispetto che Gorgia merita. L’eventuale abuso nell'impiego dell'arte non può infatti essere addebitato al docente.

 

Questa posizione, così eloquente nella sua sostanza, viene poi richiamata e, nel contempo, sottolineata perché, nel tormentato presente, l'attuale retorica, specie nella sua veste politica, è connotata invece proprio da un feroce immoralismo. Se è vero, come è  sicuramente vero, che l’odierno impiego della retorica scade e degenera tanto nella critica, quanto (per non dire soprattutto) nel dialogo.

 

La massoneria propugna alti ideali che predica, tuttavia, con l’amaro dubbio insinuatole da Platone quando, dopo di aver illustrato il mito della caverna, si domanda se i compagni, rimasti al buio (dell'ignoranza), non abbiamo poi la tentazione di "uccidere" chi, dopo di aver visto il sole (la verità), ritorna nella caverna per"scioglierli" e "portarli su" alla luce. (Platone, Repubblica, 517 a 4-6).

 

È evidente l'allusione a Socrate e alla vicenda della sua morte. Fin troppo chiara in Platone è poi la risposta affermativa all’interrogativo posto. Sul piano generale, rimane, in ogni caso, la drammaticità della domanda, che non deve, tuttavia, scoraggiare. Il pessimismo della ragione deve essere infatti combattuto con l'ottimismo dell'azione. Così come, da 300 anni, fa la massoneria.

 

 

 

 

 

 

 

 

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