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Gli Accordi di Saretto (1944)
L’Europa che non c'è (di Aldo A. Mola)
Articolo di Milo Julini
Pubblicato in data 02/04/2023

Ma quale Europa?

Di che Europa stiamo parlando? I “27” soci dell'Unione Europea non hanno unità politica, né militare. Non tutti hanno identica moneta, né, meno ancora, codici civili e penali in comune. Quand'è il momento, si disconoscono. Spesso si comportano come bambini capricciosi. E quindi buffi. Sotto l'ombrello difensivo (???) della NATO, per intervenire nella guerra d'Ucraina mandano persino vecchie forniture dell'URSS. L'Unione pare spesso una giostra di gelosie e di conflitti. Non ha mai fatto seriamente i conti con la decolonizzazione: un evento che dura da ottant'anni, si è verificato “in ordine sparso”, caoticamente ed è stato surrogato con altre forme di dominio. Di lì la sua miopia dinnanzi alla grande migrazione, che ne è una tra le conseguenze più vistose. Tra un anno vedremo quanti suoi elettori andranno alle urne per votarne i rappresentanti in un Parlamento vagante.

Questa Europa non è quella sognata dai tanti che ottant'anni orsono, anche a prezzo della vita, si batterono per la federazione dei suoi popoli in nome della libertà. Ne ha scritto Marta Arrigoni in “I Patti di Saretto del 30-31 maggio 1944 tra storia e memoria”.

 

Gli accordi italo-francesi di Saretto

Gli “Accordi di Saretto” del 31 maggio 1944 si collocano in un arco temporale, in un contesto bellico e in un quadro politico italiano generale e locale che li rende un unicum nell'ambito della lotta di liberazione italiana e francese. Ebbero il primo impulso da Costanzo Picco, ufficiale del regio esercito, rimasto in Francia dopo la resa incondizionata del 3-29 settembre 1943. Presero corpo nella primavera avanzata del 1944, quando le “bande” partigiane piemontesi erano investite da massicci rastrellamenti da parte di reparti germanici e della Repubblica sociale italiana e si stavano “politicizzando” sempre più.

I preliminari della collaborazione tra i due fronti della lotta di liberazione furono avviati il 12 maggio 1944 con un incontro al col Sautron (2800 metri sul livello del mare). Il 22 maggio a Barcelonnette (Val di Larche) Maurice Lecuyer, comandante della resistenza francese nelle Basse Alpi, e Tancredi (Duccio) Galimberti, comandante delle formazioni “Giustizia e Libertà” in Piemonte e valle d'Aosta, con ampia delega “politica” di Ferruccio Parri, comandante generale delle bande del Partito d'azione, sottoscrissero un primo accordo militare. Redatto in francese, esso impegnava a intensificare i legami tra le valli dei due lati della frontiera. Il 30-31 maggio i delegati dei Movimenti uniti della resistenza francese e quelli del Comitato di liberazione nazionale del Piemonte sottoscrissero accordi politici e militari a Saretto (borgata di Acceglio, in alta Valle Maira, in provincia di Cuneo). In breve, però, la loro efficacia svaporò.

Il contesto bellico generale mutò drasticamente. Il 17 gennaio 1944 gli anglo-americani sbarcarono ad Anzio-Nettuno ma cozzarono con la tenacia dei tedeschi attestati agli ordini del maresciallo Kesselring sulla linea Gustav. La completa distruzione dell'Abbazia di Montecassino (15 febbraio), ordinata dal maresciallo inglese Harold Alexander, non comportò vantaggi operativi per gli anglo-americani e i corpi aggregati, come i polacchi. Suscitò anzi indignazione in Italia e molte riserve anche all'estero.

A fine maggio il comandante americano Marc Clark si trovò dinnanzi alla scelta strategica: muovere verso l'Adriatico, avvolgere il nemico, costringendolo alla resa o alla fuga precipitosa, e chiudere la guerra in Italia con una vittoria decisiva oppure puntare su Roma. Scelse il successo più vistoso. Entrò nella Città Eterna il 4 giugno, vigilia dello sbarco anglo-americano in Normandia (6 giugno), militarmente di gran lunga più importante. I tedeschi ripiegarono sulla “linea gotica” (da Viareggio a Pesaro) e vi ressero per mesi. Il quadro politico-diplomatico internazionale, già modificato con l'inserimento dell'Urss e di France Libre nella Commissione militare alleata di controllo in Italia, si intersecò con quello politico interno. Il 12 aprile, ruvidamente pressato dagli anglo-americani, Vittorio Emanuele III annunciò che alla liberazione di Roma avrebbe trasferito tutti i poteri della Corona al principe ereditario, Umberto di Piemonte. Il 22 aprile il maresciallo Pietro Badoglio formò a Salerno il suo secondo governo con esponenti dei partiti del Comitato di liberazione nazionale. Il 18 giugno si insediò il governo presieduto da Ivanoe Bonomi.

In quel contesto la “guerra partigiana” nelle regioni amministrate dalla Repubblica sociale italiana incontrò crescenti difficoltà come documenta il carteggio tra Giorgio Agosti e Dante Livio Bianco, con riferimento al teatro liguro-piemontese. La “pianurizzazione” avrebbe aumentato i rischi di cattura e di eliminazione di commissari politici e comandanti militari, ormai noti ai loro nemici, e avrebbe fatto trovare le “bande” impreparate a svolgere un ruolo decisivo nell'“ora x”. Questa convinzione si fondava sulla certezza che, giunti a Roma, gli anglo-americani sarebbero presto sbarcati sulla costa ligure per respingere i tedeschi dalle Alpi occidentali.

L’intensificazione delle relazioni tra partigiani italo-francesi prese corpo nei giorni che lasciavano ritenere imminente la “svolta” militare nello scacchiere italiano. Per valutare la portata degli incontri di Sautron, Barcelonnette e Saretto occorrono due precisazioni. In primo luogo balza evidente l'asimmetria dei “poteri” delle due delegazioni. Quella francese faceva capo a un governo non ancora insediato sul territorio nazionale ma riconosciuto dalle Nazioni Unite. Le sue forze da mesi combattevano in Italia, con comportamenti talora deplorevoli (basti rievocare “La ciociara”) e assai peggiori di quelli tenuti dai militari anglo-americani. La delegazione italiana, invece, operava su mandato del CLN del Piemonte, ma era costituita solo da esponenti del Partito d'Azione, il cui vertice regionale tenne per sé l'esclusiva dell'iniziativa, proprio per il suo possibile rilievo generale. Sennonché nel maggio 1944 i CLN dell'Italia non ancora liberata non rappresentavano il governo nazionale. Nella fase cruciale i vertici torinesi del partito decisero di emarginare Galimberti con argomenti personalistici sconcertanti. Il 27 maggio Agosti ne precisò a Bianco il motivo (“la necessità che una trattava simile non cada nelle mani di Leo (Scamuzzi, NdA)” e della cerchia di Galimberti. Aggiunse realisticamente: “A mio avviso queste trattative e gli accordi che ne deriveranno non possono avere per noi dei risultati militari o politici molto importanti”.

Nel Diario sotto la data del 29 maggio 1944 Bianco annotò l'incontro con suo cognato, Gigi Ventre, Ezio Aceto, comandante militare del II settore e “col delegato pel Piemonte delle forze della resistenza francese (l'avvocato Jean Lippmann, NdA). Persona simpaticissima. Proseguiamo tutti insieme, in corriera, per Acceglio, dove pernottiamo”. L'impiego di un mezzo pubblico, attraverso molti paesi e con varie soste di servizio, indica che pochi giorni dopo l'“ultimatum” della RSI (25 maggio) i partigiani potevano muoversi su un ampio territorio senza soverchi timori di controllo.

Al termine di due giorni di colloqui nella Trattoria-Albergo di Saretto (passata in eredità a Marta Arrigoni, che ne ha curato il restauro) Max Juvenal e Bianco sottoscrissero il “documento” che, redatto in francese, va sotto il nome di “accord de Saretto”. Sull'onda di visioni condivise tra “confrères”, i delegati convennero che “aussi pour l'Italie – ainsi que pour la France – la meilleure forme de gouvernement pour assurer le mantien des libertés démocratiques et de la justice sociale, est celle républicaine”. Il 22 aprile i ministri del secondo governo Badoglio erano entrati in carica giurando sul proprio onore di rispettare la “tregua istituzionale”. Perciò Agosti sollecitò Bianco a informare Juvenal che quella clausola del “documento” andava cassata.

 

Quando la Francia di De Gaulle voltò le spalle

Gli eventi bellici che si susseguirono in Italia e Oltralpe, a cominciare dallo sbarco in Normandia e dall'insediamento a Roma del governo presieduto da Bonomi, ridimensionarono la portata politica e militare dell'accordo di Saretto, peraltro mai pervenuto a Roma. La riorganizzazione delle formazioni partigiane, “dopo ampie e laboriose trattative” (come scrisse Bianco), anche in vista degli assetti di potere postbellici portò alla stipula dell'accordo tra due divisioni di Giustizia e Libertà e due divisioni “autonome”, una comandata da Enrico Martini (“Mauri”), ufficiale di stato maggiore e dichiaratamente monarchico, “valoroso e popolare comandante” (Bianco), l'altra da Piero Cosa, affiancato da Dino Giacosa, fiero repubblicano. Lo “spirito” dell'accordo fu sintetizzato in un memorandum che rivendicò il valore innovativo delle “forze partigiane”, premessa del “radicale rinnovamento politico, morale e sociale del paese”, l'instaurazione di “una sana democrazia” e la libera scelta da parte del popolo italiano degli “ordinamenti che più gli convengono” (Valle Pesio, 7 agosto 1944).

L'accordo, detto “della Certosa”, perché discusso e deliberato alla Certosa di Pesio, al suo 7° punto andò oltre quello di Saretto. Mentre Juvenal e Bianco avevano auspicato il ritorno alla fraternità italo-francese, senza alcun cenno all'Europa, il memorandum della Certosa affermò: “Siamo contro tutti i nazionalismi e gli imperialismi e, senza per nulla rinnegare l'alto valore umano e storico dell'ideale nazionale e della tradizione patriottica italiana, auspichiamo una federazione di liberi popoli del nostro continente, che, lasciando intatta nei tratti essenziali la fisionomia delle singole nazioni, realizzi una vera comunità europea, sola via per assicurare una pace duratura e garantire le migliori possibilità di progresso.” I firmatari non indicarono alcun limite territoriale all’auspicata federazione europea. Il 4° punto dell'accordo, come già era avvenuto per quello di Saretto, risultò irricevibile da parte dei comunisti e dei socialisti del CLN piemontese. Esso recitò: “Intendiamo impegnare tutte le nostre forze contro l'instaurazione e la conservazione di qualsiasi regime totalitario e dittatoriale, di qualsiasi tipo e colore” e aggiunse: “Siamo perciò contro la dittatura della reazione (grosso capitale, alta finanza, agrari, militaristi, ecc.) non meno che contro quella del proletariato o di qualsiasi altra classe o gruppo”.

Mentre il testo era al centro della discussione, il 15 agosto l'operazione “Dragoon” cambiò drasticamente il contesto bellico e politico generale. Un convoglio di 300 navi da guerra, 2.000 trasporti e mezzi da sbarco rovesciò rapidamente sulla costa francese tra Cannes e Tolone quasi 100.000 uomini (americani e corpi francesi agli ordini del generale de Lattre de Tassigny) senza incontrare significativa resistenza da parte della 19^ armata germanica. Il crinale alpino divenne spartiacque tra i tedeschi, che dalla pianura si affrettarono a raggiungerlo per controllare le rotabili, e gli alleati. La resistenza d'Oltralpe venne incorporata nell'esercito francese. Alle 7 del 25 agosto la 2^ divisione corazzata francese entrò in Parigi, seguita mezz'ora dopo dalla 4^ divisione americana. Alle 15 e 15 il comandante tedesco della piazza Dietrich von Choltitz chiese la resa.

Nessuno tra i partigiani italiani, neppure in Piemonte, previde la svolta della Francia verso l'Italia all'indomani dell'operazione “Dragoon” e dell'ingresso di De Gaulle in Parigi. Il 14 febbraio 1944 il segretario generale agli Esteri, Renato Prunas, già ministro plenipotenziario a Lisbona, informò Badoglio che secondo de Panafier, rappresentante della Francia presso la Commissione di controllo e del Comitato consultivo per l'Italia, De Gaulle aveva in animo, “appena regolate le maggiori questioni italo-francesi, di promuovere una qualche forma di federazione latina” e aveva costituito un apposito ufficio “Italia” ad Algeri presso il Commissariato francese agli Esteri. Però il 15 marzo sempre da Algeri il generale Giuseppe Castellano, capo della Missione militare italiana presso il comando delle forze alleate, riferì a Prunas che secondo “un ben quotato funzionario del ministero degli Esteri di De Gaulle” il governo Badoglio non comprendeva figure rappresentative dell'opinione pubblica italiana ed era colpevole di “non aver ancora ufficialmente dichiarato la completa rinunzia alle famose rivendicazioni sulla Francia”.

Dopo l'annuncio dell'istituzione della Luogotenenza da parte di Vittorio Emanuele III, su ruvida pressione anglo-americana in risposta al suo memorandum del 21 febbraio, l'ambasciatore francese Massigli incalzò il governo Badoglio per un “cambio di passo” nei rapporti italo-francesi. Il 5 maggio venne sollecitata la “pubblica sconfessione delle rivendicazioni fasciste: Savoia, Corsica, Nizza, Tunisia”. Il 15 da Tangeri il console generale Alberto Berio aggiunse che De Gaulle intendeva trattare solo con “un'Italia nuova, radicalmente sbarazzata dal fascismo”, retta con forme istituzionali liberamente scelte dal popolo. Erano trasparenti le sue riserve nei confronti della monarchia e l'indebita interferenza nella futura scelta referendaria.

Nel frattempo, il CLN dell'Alta Italia premeva per essere riconosciuto quale autorità centrale dell'“entire resistance activity” sia politica sia militare nell'Italia settentrionale (31 maggio 1944), in un quadro internazionale fortemente pregiudicato dall'andamento generale della guerra. Il 10 giugno la segreteria generale degli Esteri ne informò Badoglio, ormai prossimo a essere estromesso dal governo. Constava che sin dal 1° aprile “l'organizzazione italiana della resistenza si era accordata con quella di Tito sulla base di una linea confinaria al Tagliamento”. Sull'integrità territoriale dell'Italia postbellica si addensavano nubi sempre più fosche. Il 6 luglio da Salerno Bonomi, assicurò a De Gaulle che il nuovo governo, da lui presieduto in successione a Badoglio, tra i compiti fondamentali aveva “una chiarificazione tra Francia e Italia e il progressivo rinsaldarsi della loro amicizia”. Il 17 agosto, due giorni dopo lo sbarco franco-americano sulla costa francese sud-orientale, Bonomi informò il ministro della Guerra, Alessandro Casati, che il Comandante supremo del corpo di spedizione alleato in Italia riconosceva “i patrioti italiani come esercito combattente, comandato e diretto da ufficiali e comandanti” facente parte “delle Forze di Spedizione Alleate in Italia”; ma essi dovevano portare “un distintivo regolarmente notificato in base alle leggi internazionali”. Ogni rappresaglia contro di loro “sarebbe dunque violazione delle leggi di guerra che legano anche la Germania”. Quante “bande” si adeguarono? Il 7 ottobre, mentre si infittivano i timori di svalicamento di truppe francesi in Valle d'Aosta, Prunas riferì a Bonomi, per la sua veste di ministro degli Esteri, di aver comunicato all'ambasciatore francese a Roma, Maurice Couve de Murville, l'“insoddisfazione” dell'Italia perché le autorità francesi consideravano “ripristinato lo stato di guerra fra noi e la Francia” e assumevano misure vessatorie nei confronti degli 800 mila italiani residenti in Francia, benché 1200 volontari italiani nella sola Parigi, a prezzo di un centinaio fra morti e feriti, avessero concorso alla liberazione di Parigi.

Lo “spirito di Saretto” era ormai un lontano ricordo. Gli anglo-americani volgevano la loro precipua attenzione ai problemi politico-militari dell'Estremo Oriente: la guerra contro il Giappone e le posizioni di tutti i Paesi interessati a quell'area, dall'India all'“Indocina”, alla Cina stessa e all'Unione sovietica, che solo l'8 agosto 1945, dopo il bombardamento atomico americano su Hiroshima, avrebbe dichiarato guerra all'impero nipponico. Anche l'Italia il 12 luglio 1945 dichiarò guerra al Giappone. Ma il conflitto mondiale non era tra ideali e ideologie bensì tra potenze. L'“Europa” nacque su basi del tutto diverse dallo “spirito di Saretto”.

Aldo A. Mola

 

La copertina del volume di Marta Arrigoni (martasaretto@libero.it), punto di arrivo di decenni di studio e valida base in vista dell'80° dell'accordo di Saretto.

Il 19 maggio 1945 il socialista Giuseppe Saragat, ambasciatore a Parigi, avvertì il ministro degli Esteri Alcide De Gasperi: “La situazione è tutt'altro che rassicurante e tale da preoccupare coloro che auspicano nell'interesse della patria e del pacifico assetto dell'Europa un'intesa sempre più cordiale tra l'Italia e la Francia (…) La Francia vuole annettersi gli alti bacini della Roia, Vesubia, Tinea, il massiccio dello Chaberton, i colli del Moncenisio e del Piccolo San Bernardo. Ma la Francia vuol annettersi soprattutto le valli del Pellice e la valle d'Aosta”, previo plebiscito da celebrare “nella scia di un esercito di occupazione”. L'ultima parola toccò al Trattato di pace del 10 febbraio 1947, nettamente sfavorevole all'Italia su entrambi i confini dell'Italia, con la Francia e, peggio, con la Jugoslavia, in spregio al suo concorso alla guerra contro la Germania di Hitler e i suoi alleati interni e internazionali, sia come Stato co-belligerante, sia con il Corpo Volontari della Libertà.

AAM

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