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Cultura
“Siamo “ solo noi
Nulla esiste, se non nella percezione che ne abbiamo
Articolo di Patrizia Lotti
Pubblicato in data 05/05/2023

Siamo solo noi è il titolo di una famosa canzone di Vasco Rossi, una definizione  nitida e spietata di  una generazione  che  non sa decidere  dove andare, tanto meno  cosa essere: Siamo solo noi /Che andiamo a letto la mattina presto/E ci svegliamo con il mal di testa/…  Insomma l’espressione indica l’appartenenza ad un gruppo, ad  un ammasso di disperati che non ha né cerca giustificazioni, lontana mille miglia dalle posizioni nobili ed elitarie dei “poeti maledetti”, per esempio. Il  titolo dell’articolo, invece, che prevede che “siamo” sia posto tra virgolette, sposta l’attenzione sul verbo; sottolinea  che significa esistere, che  è predicato verbale, non nominale. Siamo, cioè esistiamo solo noi. Noi chi? Tutti noi, l’umanità intera. E tutto il resto non esiste? Se noi siamo il soggetto, l’oggetto non esiste? Certo che esiste, ma è uno per ognuno di noi. Non esiste in sé, o almeno noi non possiamo percepirlo se non attraverso il nostro io. Senza andare troppo lontano, Pirandello cominciò a scrivere queste cose da giovanissimo e continuò fino alla fine.

Chi non ricorda  Così è, se vi pare, la celebre commedia che si conclude con un nulla di fatto? L’identità della donna che appare sul palcoscenico non è svelata perché non può essere svelata, perché la donna non ha una sua identità, ma solo quella che i diversi personaggi della commedia le attribuiscono, ciascuno secondo il proprio essere. O ancora, più semplicemente, citerei uno sketch di non so più quale comico che mi aveva divertito tempo fa, ma mi aveva anche fatto riflettere. “Mio figlio si sposa!” diceva felice una madre raccontando come i due futuri sposi si fossero conosciuti, quali  fossero i loro programmi futuri, dove si sarebbe svolta la cerimonia e via dicendo. “Mio figlio si sposa!” , diceva cupa un’altra madre, dicendo esattamente le stesse cose della prima, ma presentandole come una tragedia.

Naturalmente il comico rendeva il fatto divertente giocando sugli stereotipi della madre apprensiva, della suocera seccatrice, delle diverse preferenze sessuali  e chi più ne ha più ne metta. Ma non ho potuto fare a meno di continuare a  pensare che l’essenza autentica di quel matrimonio, in sé, non esistesse; per una sarebbe stata una gioia, per l’altra una tragedia. Per non parlare degli invitati. Per ognuno di loro sarebbe stato qualcosa di differente.

Quindi, in conclusione, quel matrimonio non esiste in sé? Al contrario; è avvenuto, è un fatto, è fuor di dubbio che i due sposi si siano scambiati una promessa. Ma l’unica cosa che ognuno di noi può dire in proposito è la sua personale percezione dell’evento, filtrata attraverso la sua storia e la sua personalità, senza dimenticare il suo stato di salute o se ha bevuto un bicchiere di vino di troppo. A questo punto dobbiamo cedere al più  cupo  relativismo e cadere nello sconforto di chi non può far altro  che cedere alla propria impossibilità conoscitiva? Ovviamente le risposte al quesito sono infinite, e non mancano argomentazioni convincenti per le posizioni più diverse.

Personalmente mi piace considerare la questione in questi termini: se l’essere delle cose coincide con la percezione che ne abbiamo, allora davvero l’unica realtà che esiste è quella che ci creiamo noi. Perciò sta a noi  decidere come vivere una gioia o una tragedia: nulla è gioia in sé, nulla è tragedia in sé. Sta ad ognuno di noi decidere. Un’alluvione, un terremoto, una guerra, una malattia, la nascita di un figlio, una scoperta scientifica destinata a salvare migliaia di vite, la riscoperta di un’amicizia che si credeva finita sono tutti “fatti” che trovano la loro realtà nel modo in cui li viviamo.

Anzi, mi spingo a dire che siamo noi, il soggetto, ad essere in grado,  in certo qual modo,  di agire sull’oggetto, o almeno sul suo rapporto con noi, se crediamo che nulla è, nulla esiste se non nella percezione che ne abbiamo. Una malattia grave è una malattia grave, non si discute; ma quanti modi esistono per percepirla e quindi per viverla? Tanti quanti siamo noi mortali.

Addirittura, nel caso specifico, è fuor di  dubbio che vivere bene la malattia, per esempio, se non può portare a ricostituire un osso spezzato, può però condurre a vivere bene la sofferenza  e a renderla più lieve. Forse persino anche ad accorciare i tempi della convalescenza.

Può portarci a non ricordare l’esperienza come un evento traumatico, ma magari come un’occasione per rivalutare aspetti di noi, del nostro corpo e della nostra anima che non avevamo mai considerato prima. E se continuiamo a riflettere su quanto della realtà che viviamo sia frutto della percezione che ne abbiamo, forse potremmo anche imparare ad accettare con più consapevolezza  il pensiero e l’opinione altrui, frutto di un’altra percezione, diversa, ma non per questo meno valida della nostra. Insomma potremmo forse considerare i “fatti” nella loro complessità e nelle loro diverse sfaccettature, allontanando i pregiudizi e diventando magari più tolleranti.

Non solo; se davvero “siamo” solo noi, potremmo servirci di questa consapevolezza per non  accusare gli altri dei nostri insuccessi ed errori, mettendo in primo piano la nostra responsabilità nelle decisioni che siamo tutti chiamati a prendere. Naturalmente tutto dipende dal “filtro” con cui guardiamo ciò che sta fuori di noi e da quale realtà vogliamo attribuirgli: sta solo a noi decidere  in che rapporto vogliamo stare con tutto ciò che è altro da noi.

E Vasco cosa c’entra? Forse la sua canzone voleva solo dire che in quel momento non si sentiva altro che parte di un gruppo di disperati. Poi forse ha capito che si può “essere” e basta. Ognuno su  di sé può fare quasi tutto, operare qualsiasi cambiamento. Sugli altri  possiamo fare poco, anzi pochissimo, a mio parere. Interessante una sua canzone molto successiva: Eh già, sembrava la fine del mondo, ma sono ancora qua.

“Sono” e basta. Chissà cosa pensa, Vasco.

 

 

 

 

 

 

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