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Cultura
“Premieratura”?
Boris Johnson
Nessuna premura (di Aldo A. Mola)
Articolo di Milo Julini
Pubblicato in data 04/06/2023

Premierato. Araba Fenice

 “Che vi sia ciascun lo dice. Dove sia nessun lo sa”. È l'Araba Fenice. Proprio come il “premierato”. Un “Soggetto” misterioso. A cominciare dal vocabolo. Si fatica a trovarlo nei dizionari della lingua italiana. Perché è di importazione. Recente. Da chissà dove. Si scrive premierato, ma dicesi primierato. Viene dal francese “premier” che si legge “premiè” o dall'inglese “premier” che più o meno si pronuncia “prìmier”? Mah! Di sicuro non arriva dal latino. Non sta per “primus inter pares”. Anzi, vuol dire proprio l'opposto: “Io sono io, e voi... eccetera”. È primieratura?

Ma che vuol dire “premierato”? Che cos'è? Che cosa vorrebbe essere? “De jure condendo” è bene essere chiari, lineari e doverosamente tempestivi “a futura memoria”. In un dotto saggio su “Premierato e sistema parlamentare” il costituzionalista di formazione britannica Tommaso Edoardo Frosini vent'anni addietro osservò che la proposta di premierato, già all'epoca svolazzante, non risultava “compiuta e definita”. Era, come anche oggi viene presentata, un ventaglio di progetti accomunati per rafforzare il governo in evoluzione (o involuzione, secondo i punti di vista) dal sistema parlamentare a quello incardinato sul “Primo ministro”, titolare di propri poteri, tra i quali nominare e revocare i ministri e decidere lo scioglimento anticipato delle Camere per ricostituire o rafforzare la sua maggioranza.     

 

Due Presidenti per un unico Stato?

Nel “caso Italia” il premierato si sostanzia nella modifica di uno degli Organi dello Stato, il presidente del Consiglio, elevato a Primo ministro, senza eliminazione del Capo dello Stato né, meno ancora, del vero sovrano, cioè dei cittadini. Però, per quanto se ne voglia attutire l'impatto sull'ordinamento costituzionale, l'istituzione del premierato investe e condiziona sia l'uno sia l'altro. Venendo al punto che maggiormente preme se si voglia passare da dissertazioni accademiche al quadro politico-istituzionale, l'avvento del Primo ministro con i poteri da “premier” ridimensiona drasticamente le prerogative del Presidente della Repubblica enunciate dagli articoli 92 e 88 della Carta costituzionale. A oggi il Capo dello Stato “nomina il Presidente del Consiglio dei ministri e, su proposta di questo, i ministri” (art. 92 comma 2) e “sentiti i loro Presidenti scioglie le Camere o anche una sola di esse” (art. 88 comma 1). Il premierato intende invece rimettere l’indicazione del primo ministro direttamente al voto dei cittadini, esautorando il Capo dello Stato, retrocesso a pallida comparsa nella bilancia dei poteri, in massima parte concentrati nelle mani di un Primo ministro dai poteri persino maggiori rispetto a quelli del “capo del governo” istituito con la legge 24 dicembre 1925, n. 2263 (come tutte le altre del “buio ventennio”), debitamente approvata dalle Camere, succube di Benito Mussolini e del Partito nazionale fascista. All'epoca il duce ormai faceva e disfaceva a piacimento, anche per la stolida astensione dall'Aula della maggior parte delle opposizioni, arroccate sul malaugurante “Aventino”: dimentiche che, secondo la narrazione, da quel Colle la plebe alla fine ne erano scesa e aveva patteggiato, mentre Mussolini non patteggiò. Impose.

Però, va ricordato, che, per quanto “fascistissima”, quella legge non vulnerò il primato della Corona. Essa, infatti, stabilì che “il Capo del governo primo ministro segretario di stato è nominato e revocato dal Re ed è responsabile verso il Re dell'indirizzo generale politico del governo”. Nulla di veramente nuovo rispetto al regio decreto 14 novembre 1901. Infatti nella pienezza dei suoi poteri il 25 luglio 1943 Vittorio Emanuele III “revocò” Mussolini e lo sostituì con il maresciallo Pietro Badoglio: un atto istituzionalmente ineccepibile, niente affatto un “colpo di Stato”, a differenza di quanto asserito dal monarcofago Luigi Salvatorelli.

La sottrazione al Presidente della Repubblica del potere di sciogliere una o entrambe le Camere, sentito il parere (la Costituzione non precisa se vincolante) dei loro presidenti vulnererebbe la figura del Capo dello Stato enunciata dal comma 1 dell’art. 87 della Costituzione: “Il Presidente della Repubblica è il Capo dello Stato e rappresenta l'unità nazionale”: ovvero è l'espressione suprema della sovranità, che “appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”.

 

La “nazione” in Italia...

Prima di procedere nella riflessione sul cosiddetto premierato, conviene far chiarezza sull'abuso dilagante del vocabolo “nazione” usato dalla presidente del Consiglio e da suoi caudatari quale sinonimo e/o sostitutivo di Stato e di cittadini italiani. L'Italia odierna è, per continuità storica ininterrotta e riconosciuta dalla Comunità internazionale, tutt'uno con il Regno proclamato il 14 marzo 1861: uno Stato sovrano senza riferimenti ai suoi confini, molto diversi da quelli raggiunti nel 1918-1924, con annessioni in forza dei Trattati di pace e senza conferma plebiscitaria, così come è avvenuto (al passivo) con il Trattato di pace del 10 febbraio 1947. Lo Stato d'Italia nel 1860-1861 nacque da guerre che debellarono i sovrani degli Stati pre-unitari con plebisciti confermativi che recarono alla Corona sabauda la storia dei “popoli di Italia”, evocati da Vittorio Emanuele II nel primo discorso della Corona, pronunciato a Torino, come ricorda Tito Lucrezio Rizzo in “Parla il Capo dello Stato” (ed. Herald, 2022).

Il Re sapeva di avere alle spalle molti secoli di rimaneggiamenti della carta politica europea e che ogni Stato comprendeva vicende più volte millenarie. Come ha bene documentato lo storico palermitano Tommaso Romano nell'eccellente opera su “Vittorio Amedeo di Savoia Re di Sicilia” (con introduzione di Salvatore Bordonali e un saggio di Alberico Lo Faso di Serradifalco, ed. Thule, 2013), sin dall'incoronazione il sovrano sabaudo “vide” a Palermo la Grande Storia nella Cappella Palatina (capolavoro moresco-bizantino) a Palazzo Reale detto “dei Normanni”. E' la punta di un iceberg come tanti altri Monumenti che da un capo all'altro dell'Italia testimoniano la stratificazione del Tempo e costituiscono il valore aggiunto inarrivabile della specificità italico/italiana tra Mare Nostrum e continente europeo. Da Ravenna e Aquileja al Pantheon di Roma, da Paestum a Selinunte e via continuando sino alla Sacra di San Michele.

 

...e altrove: Francia e Gran Bretagna

I “primierati” sulla faccia della terra sono variegati e variopinti come le piume degli uccelli e le squame dei pesci. Tutti con la stessa ambizione e/o pretesa: rappresentatività diretta della volontà degli elettori e stabilità del governo. Ma nel diritto e nei fatti ve ne sono per tutti i gusti. L'unico più rispondente alle premesse teoriche del premierato è quello vigente nello Stato di Israele. In un Paese multietnico e privo di carta costituzionale esso intreccia il sistema elettorale proporzionale con l'indicazione del presidente del Consiglio da parte del corpo elettorale. L'esito è sotto gli occhi: il ricorrente scioglimento della Camera, mentre il blocco di governo sempre più trae motivo per la permanenza al potere dallo stato di guerra permanente. 

Tra i molti modelli di “premierato” alcuni additano l'esempio della Francia, repubblica semi-presidenziale. Il suo “caso” merita una sintetica attenzione. Mette in evidenza quanto possano essere distinti e distanti due Paesi confinanti, come le “sorelle latine”. La “Francia” esiste da Clodoveo, fondatore dei merovingi, e dai pipinidi che vi si susseguirono senza soluzione di continuità dallo sfarinamento dell'impero romano in Occidente. Pipino III il Breve, deposto l'ultimo dei merovingi e proclamato re all'Assemblea di Soissons (751), pose le premesse per l'ascesa di Carlo a re dei Franchi, nell'800 d.C. fondatore a Roma del Sacro Romano Impero. Dal suo sfacelo, la Francia si dette e conservò la propria identità. Al di là di parziali e temporanee dominazioni straniere, malgrado lacerazioni dinastiche (alimentate dagli Orléans) e religiose (gli ugonotti) perpetuò la continuità dai Valois ai Borbone. Fu Voltaire, principe degli illuministi, a spiegare la grandezza di Luigi XIV, il Re Sole. Nel pieno delle nefandezze rivoluzionarie, i francesi difesero i confini contro le coalizioni restauratrici e dilagarono in Europa. Napoleone I si proclamò successore di Carlo Magno. Un secolo e mezzo dopo, il presidente della repubblica René Coty conferì a Charles De Gaulle la formazione del governo per scongiurare la rinuncia all'Algeria, “territorio nazionale”. Sconfitti nel Vietnam (1954) e dopo lo smacco subìto nella “crisi di Suez” (1956), contemporanea all'insurrezione in Ungheria, e mentre l'impero coloniale stava crollando il generale chiese e ottenne poteri straordinari.

De Gaulle varò una nuova costituzione, approvata col referendum del 28 settembre 1958 e promulgata il 4 ottobre seguente. Basata sui principi della Rivoluzione del 1789 (libertà, uguaglianza, fraternità) essa fu la premessa di molte e spesso decisive revisioni. Dopo travagli all'interno (inclusa l'OAS, che oggi i più dimenticano) e internazionali (compresa la temporanea uscita dalla NATO: la Francia si dotò della bomba atomica), la V Repubblica nacque con l'elezione diretta del suo presidente (1962), dai poteri così “forti” che nel 2000 la sua carica venne ridotta da sette a cinque anni. In sintesi, il regime francese è anni luce lontano da quello italiano.

Altrettanto remoto dall'Italia odierna è il mitico “modello Westminster”, non solo perché la Gran Bretagna è una monarchia (frutto di una storia secolare e segmentata, con la decapitazione di due sovrani, molto più complessa di quanto appaia) ma anche perché il suo sistema rappresentativo ed elettorale è del tutto diverso rispetto a quello degli Stati di terraferma. Lì a determinare le sorti del governo non sono né il Re né gli elettori (chiamati alle urne in collegi uninominali nei quali, a turno unico, prevale chi ottiene più voti) ma i partiti, che decidono al proprio interno da chi intendono essere rappresentati al governo e di cambiarli quando vogliono, come è accaduto anche in tempi recentissimi.

 

La primieratura all'italiana

Il premierato immaginario ora ventilato in Italia si fonda su due ipotesi e alcune speranze (o pretese) molto lontane dalla realtà. L’elezione o designazione (“istituti” molto diversi) diretta del capo del governo presuppone che l'elettorato sia ripartito in due fronti, alternativi ma compatibili perché entrambi rispettosi delle regole fondamentali dello Stato. In secondo luogo si dà per scontata la partecipazione largamente rappresentativa della cittadinanza. Però le condizioni odierne dell'Italia sono del tutto diverse. L'affluenza alle urne è precipitata a livelli preoccupanti sia nelle elezioni politiche, nelle quali, per quel che valgono, i “sondaggi” danno per certa un'astensione del 40 per cento degli elettori, sia in quelle amministrative, ove essa sale a percentuali così elevate da delegittimare gli eletti. L'“eletto” ci rappresenterebbe? Inutile dire gli assenti hanno sempre torto. Se poi dissentono?

In forza dell'articolo 49 della Costituzione “tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale”. L'articolo 18 già anticipa che “i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente, senza autorizzazione, per fini che non sono vietati ai singoli dalla legge penale”. Però accade che qualche “associazione”, come di quando in quando la “Massoneria”, venga indiziata per chissà quali misfatti, che i suoi componenti vengano indagati, che i loro nomi siano pubblicati nelle “gazzette” e che dopo un decennio l'“indagine” finisca nel nulla senza alcun indennizzo per quanti nel frattempo sono stati esposti al pubblico ludibrio come affiliati a società segrete dedite a complottare contro lo Stato.

Mentre sono state introdotte leggi che disciplinano eleggibilità, compatibilità e decadenza dalla carica (una quasi “ad personam”, come tutti sanno), non esiste alcuna legge che certifichi la democraticità interna dei partiti. La “sincerità” del voto non è separabile dalla disciplina dei partiti politici, da norme che ne certifichino regole di vita interna, procedure per la scelta dei candidati e trasparenza dei bilanci. Moniti che fanno sorridere in un Paese nel quale il congresso di un partito “democratico” di qualche peso mesi addietro elesse un segretario poco dopo sconfitto dalla fluida affluenza alle autolesionistiche “primarie”: altro prodotto di importazione nel Paese sovranpopulista del “made in Italy”.

“Sic stantibus rebus”, l'elezione diretta del “premier” è un specchietto per le allodole. Va ricordato che a proporlo è un partito che, al netto dell'astensionismo, delle schede bianche, ecc. ecc., ha ottenuto il 16 per cento dei voti validi: il che non corrisponde affatto al rivendicato “mandato della nazione”, asserzione che colpisce le fantasie ma cozza con la realtà.

Oggi come oggi l'Italia è una repubblica parlamentare. È bene lo rimanga. È necessario che il Parlamento faccia il dovere che la Costituzione gli impone. Imboccare la via dell'articolo 138 per cambiare venti o trenta articoli della Carta, tra cavilli e votazioni varie, significherebbe bloccare le Camere per anni e precipitare nelle spire di un referendum confermativo. Esattamente l'opposto di quanto occorre: assumere le decisioni davvero impellenti nei confronti dei cittadini e dei rapporti dell'Italia con l'Unione Europea e dei trattati internazionali che ci vincolano.

 

Barra dritta.

Nel frattempo vien bene ricordare quanto il Presidente Sergio Mattarella disse a Dogliani rievocando Luigi Einaudi nel 70° della sua elezione a Presidente della Repubblica. Monarchico e liberale Einaudi spiegò che il Capo dello Stato può lasciare dormienti le sue prerogative anche per un ventennio, salvo impugnarle quando “sente” che il Paese lo esige. Come fece Vittorio Emanuele III il 25 luglio del 1943. Nel frattempo il Capo dello Stato in carica ha motivo di consegnare al successore perfettamente integre tutte le prerogative che la Costituzione gli ha conferito.

Con i poteri che la Carta loro assegna, presidenti della Repubblica hanno conferito la formazione del governo a politici dal seguito partitico ed elettorale a volte modesto o quasi irrilevante ma dal prestigio indiscutibile: da Giuseppe Pella (nominato da Einaudi) a Giovanni Spadolini e a Bettino Craxi (incaricati da Pertini). E che cosa dire di presidenti del Consiglio “tecnici”, come Carlo Azeglio Ciampi e Mario Draghi? Il corpo elettorale avrebbe saputo scegliere di meglio con voto diretto?       

Se poi proprio i parlamentari oggi in carica percepissero che gli italiani sentono bisogno di riformare il sistema costituzionale dovrebbero affidarne l'onere a un’Assemblea costituente. Sarebbe una bizzarria proprio nel 75° della Carta vigente che, piaccia o meno, ha garantito per tre quarti di secolo lo Stato d'Italia. Ma non sarebbe l'unica nella travagliata storia d'Italia e forse arriverebbe in buon punto, con lo sguardo all'Europa e “all'aiuola che ci fa tanto feroci”.

Aldo A. Mola

Boris Johnson. Un premier biondo, fu stato.

Dei poteri del Capo dello Stato dalla Monarchia alla Repubblica si parla alle h.16 del 7 giugno all'Archivio Storico della Presidenza della Repubblica (via del Quirinale 30, Roma) in un incontro di studio con riferimento alla “Vita di Vittorio Emanuele III. Il Re discusso” (ed. Bompiani). Intervengono la Sovrintendente dell'Archivio Marina Giannetto, il generale dei Carabinieri Tullio Del Sette e i professori Aldo Ricci, Tito Lucrezio Rizzo, Gianpaolo Romanato e Luciano Zani: una riflessione a più voci sulla continuità dello Stato dell'“itala gente da le molte vite” (parole di Giosue Carducci, mazziniano, garibaldino, monarchico, massone). 

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