
A 5 anni dal suo ultimo "Ponyo sulla scogliera", il maestro Hayao Miyazaki torna sul grande schermo con una favola ambientata in Giappone
Fonte: Asiaexpress.it
Opera che spiazza, prima di tutto perché volutamente priva di quel potere affabulatorio che conquista fin dai primi minuti presente in ogni altro film del Maestro, il quale peraltro decide di realizzare in prima persona, come regista, un film scevro di ogni elemento fantasy, un’anomalia nella sostanziale suddivisione dello Studio Ghibli dove i film realistici venivano assegnati ad altri registi, come Takahata o Kondo. The Wind Rises (Kaze tachinu) abbandona qualsiasi dimensione fiabesca per adottare un approccio narrativo per l’autore inedito.
Coerentemente con la poetica del grande animatore, anche questo film è incentrato sulla tensione al superamento della forza di gravità, al galleggiamento, alla sospensione, alla possibilità di vedere il mondo dall’alto. Una possibilità che Miyazaki poteva far raggiungere ai suoi personaggi o attraverso elementi fantasy, come la scopa magica di Kiki, oppure attraverso le varie, leonardiane, macchine volanti. In The Wind Rises l’anelito a volare si mescola a quel sogno del progresso che i giapponesi tra Ottocento e Novecento identificavano nell’Occidente, nella sua sviluppata tecnologia e nella sua cultura. Così il protagonista, Horikoshi Jiro, personaggio realmente esistito (anche questa un’anomalia per Miyazaki), e in cui l’autore palesemente si identifica, prende come modello l’ingegnere aeronautico italiano Giovanni Battista Caproni, progettista, guarda un po’, del modello di bimotore Caproni Ca.309 Ghibli. E ancora il film vede un lungo periodo di lavoro di Jiro in Germania e la citazione esplicita della Montagna incantata. Il capolavoro di Thomas Mann appare il vero sottotesto del film di Miyazaki, con cui ci sono numerose analogie, l’ambientazione in un periodo prebellico, la tubercolosi, il sanatorio. E Hans Castorp, protagonista del romanzo, diventa nel film Kastrup.
Un regista che ha sempre fatto romanzi di formazione (La città incantata o Kiki's Delivery Service per esempio) arriva ora a costruire un’opera che si dichiara palesemente come Bildungsroman, ma seguendo i canoni narrativi del romanzo occidentale novecentesco. Tutto il film è quindi incentrato sul sogno del progresso, sul tentativo di vincere o assecondare la natura. Una natura che assume un ruolo ambiguo, talvolta distruttivo, come durante il grande terremoto del Kanto, ma anche un modello da imitare, come nel caso della spina di sgombro che suggerisce la forma aerodinamica perfetta. Non si può vincere realmente un legge di natura come la forza di gravità. Si può tuttalpiù eluderla sfruttando la natura stessa, il vento, con grandi ali, e per mezzo di eliche, motori, propulsori. Per sconfiggerla esistono solo le ali della fantasia. Nei suoi sogni, dichiarati come tali mostrando ogni volta il risveglio – Miyazaki, come si diceva, qui non concede nulla al fantasy, rimane paradossalmente con i piedi per terra – Jiro vede se stesso camminare tranquillamente sulla cima dei velivoli: è lo scarto tra quello che si può raggiungere e quello che rimane un’aspirazione.
La natura è rappresentata nel suo apogeo dal vento. Una presenza elementare, costante, sempre esibita ed evidenziata come per esempio negli ombrelli che dal soffio del vento vengono tirati e deformati. Il vento che equivale al sogno, ma anche alla vita. E che può essere anche il kamikaze, il “vento divino”, il nome dato ai piloti suicidi della Seconda guerra mondiale (rifacendosi al leggendario tifone che spazzò via la minacciosa flotta mongola diretta verso il Giappone nel 1281), anch’essi espressione e risultato di quella tecnologia aeronautica: il Mitsubishi A6M Zero, capolavoro ingegneristico di Horikoshi, finirà per essere usato proprio a quello scopo. E la canzoncina dei kamikaze sui titoli di coda, di solito accompagnati nei film del Maestro da filastrocche infantili, non può che spiazzare ulteriormente, in modo da risultare devastante. Tanto da generare accuse in patria al film come un’opera reazionaria e guerrafondaia. Miyazaki racconta di un uomo che vuole solo creare splendidi aeroplani, non importa che questi vengano impiegati per scopi bellici. Può essere semplicemente una riflessione sulla presunta neutralità delle scoperte scientifiche e delle innovazioni tecnologiche, sull’indifferenza dei loro artefici per gli impieghi che ne vengono fatti, come per l’energia atomica. Le idee di Miyazaki sono ben note e basterebbe la famosa battuta «Meglio porco che fascista» di Porco Rosso a ricordarceli. Ma poco importa in questo film, dove l’autore evita accuratamente qualsiasi commento morale, qualsiasi punto di vista. Si limita a esporre una serie di fatti ed elementi, lasciando allo spettatore la facoltà di metterli in ordine, di dare un giudizio. Che, tra i tanti possibili, potrebbe anche essere reazionario. Lo spettatore sa cosa succederà dopo il film: ci saranno Hiroshima, Nagasaki, il bombardamento di Tokyo, La tomba delle lucciole. «Il Giappone scoppierà» dice un personaggio del film.
Un’opera di estrema amarezza, dove massimi sono la disillusione e il disincanto. Non a caso l’epitaffio di Miyazaki.
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Articolo pubblicato il 05/09/2013