Intervista a Francesco Ambrosini

Autore del libro “Giornate di sangue a Torino” che ricorda i torinesi morti e feriti nelle manifestazioni del 21 e 22 settembre 1864

Perché si è occupato di questo argomento?

- E’ un fatto trascurato da molti storici, oppure liquidato con la frettolosa definizione di “rivolta dei torinesi” contro lo spostamento della capitale a Firenze. Quindi, prima di tutto, mi sembrava fondamentale recuperare la memoria di quanto era effettivamente accaduto e tracciarne una cronaca precisa, basata sulle testimonianze raccolte nell’inchiesta parlamentare e in quella municipale, sul dibattito politico dell’epoca, oltre che sulla corrispondenza e sugli atti delle personalità coinvolte.

 

È stata una strage di persone che manifestavano in modo sostanzialmente pacifico, commessa dalla forza pubblica (carabinieri, esercito e guardie di pubblica sicurezza). Qualche milite si è comportato responsabilmente ma non è bastato: gli ordini erano evidentemente di reprimere brutalmente le proteste. Lo dimostra la presenza di una sorta di “polizia parallela” che gestiva la situazione nelle piazze, anche usando dei provocatori per fare alzare la tensione. Ben diverso, e positivo, il ruolo svolto dalle autorità comunali anche per mezzo della Guardia Nazionale torinese, che ha tentato di evitare il dramma. I manifestanti, poi, sono stati calunniati dal governo stesso e da molti giornali italiani dell’epoca che hanno definito le dimostrazioni come una ribellione armata, mentre erano proteste disorganizzate, estemporanee e prive di armi.

 

- In secondo luogo, intendevo sottolineare la drammaticità di quel momento, non solo per l’eccidio, ma anche per la frattura determinatasi fra la popolazione, in questo caso del Piemonte, e lo Stato.

Nell’Italia appena unificata, pur non del tutto, permanevano contrapposizioni fra le varie zone del nord, del centro e del sud. I politici dell’Italia centrale manifestavano sentimenti anti-piemontesi e insofferenza verso la regione che pure si era impegnata così tanto per combattere gli austriaci e ne contestavano il ruolo-guida nell’Italia unita. Il Primo Ministro bolognese Minghetti e quello degli Interni, fiorentino, Peruzzi esprimevano ostilità nei confronti della città sabauda che li accoglieva insieme agli altri membri del governo. A tutti loro spostare la capitale da Torino pareva una vittoria e si erano mossi in modo spregiudicato. Con la Convenzione italo-francese del 15 settembre 1864, avevano barattato con Napoleone III l’uscita dei soldati francesi da Roma in cambio del trasporto della capitale a Firenze. Con una sola mossa avevano sacrificato sia Torino che Roma. Il contrasto era forte fra le diverse fazioni della politica, prosperavano personaggi ambigui e voltagabbana.

 

- Oltre a quanto detto sopra, scrivere su questo argomento mi ha offerto la possibilità di fare una sorta di fotografia della Torino del 1864, da tre anni capitale d’Italia e destinata a un periodo di crisi dopo la perdita del ruolo. I nostri concittadini dell’epoca erano spesso provenienti da tante zone del Piemonte o anche di altre regioni, si trovavano qui per lavorare come artigiani, negozianti, manovali eccetera; molti erano impiegati nelle struttura amministrativa dello Stato. Tutti messi in difficoltà dal trasloco improvviso della capitale. Si intravedevano, però, le premesse da cui partire per risollevarsi e anche di queste ultime ho cercato di dare un’idea nel libro.

 

Come giudica questo avvenimento?

Le giornate di sangue a Torino non sono un episodio casuale e strampalato ma si inseriscono nel travagliato percorso unitario italiano. Certo, le difficoltà più evidenti riguardavano il Sud Italia, dove, dopo la spedizione dei Mille, a Garibaldi non era stato permesso di completare l’opera di effettiva rinascita. Era mancato il tempo necessario per uno sviluppo sociale e per la crescita di una nuova classe dirigente, di conseguenza quelle regioni si erano viste imporre amministratori del nord, a volte non adeguati, o i borbonici riciclati. E coloro i quali si erano opposti in precedenza ai Borboni venivano spesso considerati pericolosi anche dai Savoia. Ma anche nel resto dell’Italia permanevano divisioni in opposti “municipalismi”, come venivano definiti allora, e forti contrasti ideali. Patrioti come Garibaldi e Mazzini venivano tenuti ai margini e sui loro sostenitori talvolta l’esercito italiano sparava (ad Aspromonte come a Brescia, dopo la tentata spedizione di Sarnico).

 

A Torino, il colpo di mano del governo per spostare la capitale, il non rispetto per la cittadinanza, e neppure per le autorità comunali, l’incapacità e il non coordinamento delle varie forze dell’ordine fra di loro, nonché la chiara volontà di criminalizzare la protesta, hanno creato le condizioni per una tragedia collettiva. Questa ha assunto risvolti persino grotteschi quando esercito e carabinieri si sono sparati fra di loro in una piazza San Carlo gremita di manifestanti, curiosi e passanti.

 

Il nuovo Stato italiano si trovava di fronte a episodi di dissenso di vario tipo e reagiva spesso con goffa violenza. A Torino come altrove.

 

Ritiene che sia stato “utilizzato” in modo non adeguato alla Storia per scopi politici?

Non so esattamente se lo sia stato e se sì in quale misura. Comunque non deve esserlo. Si tratta di rendere note informazioni evidenziate nell’inchiesta parlamentare e in quella municipale, quindi ufficiali, che poi sono state insabbiate. Si tratta di “chiedere giustizia”, almeno per quanto riguarda la valutazione storica, per la cittadinanza torinese di 150 anni fa e per le sue vittime. Renderemmo un pessimo servizio a queste ultime se cercassimo di mettere loro un cappello politico.

 

In ogni caso è importante ricordare che quei manifestanti gridavano «Viva Garibaldi!» e «Roma capitale!», consideravano giusto rinunciare al ruolo di Torino per attribuirlo a quella città, non proponevano certamente di dividere l’Italia appena unificata, anzi ammiravano i patrioti che avevano combattuto. E criticavano il potere assoluto e repressivo del papa a Roma. Dopo il massacro, molti contestarono lo stesso re Vittorio Emanuele II che non era riuscito a difendere né la sua città né gli abitanti di questa. Anche la nobiltà piemontese, in parte impegnata a riproporsi nella nuova corte fiorentina, perdette un bel po’ della propria stima presso la gente.

 

Questo avvenimento va contestualizzato: la percentuale dei votanti era estremamente esigua perché si votava in base al reddito, la vita dei lavoratori era molto dura, l’analfabetismo era diffuso in tutta Italia e quindi pochi avevano accesso alle informazioni. Si era molto lontani da una democrazia.

 

Quale è il messaggio del suo libro?

Semplicemente l’importanza di fare emergere questi fatti, collocandoli nella situazione italiana e internazionale di quell’epoca. Spostare la capitale da Torino a Firenze in ossequio a un sovrano straniero, e rinunciando a Roma, significava tradire gli ideali stessi del Risorgimento. Il quale Risorgimento si poneva peraltro obiettivi di unità nazionale e non certo di democrazia, purtroppo, se non da parte di coloro i quali non poterono prevalere, come Mazzini. L’Italia era nata con il sacrificio di tanti patrioti ribellatisi all’assolutismo, ma rimaneva un’antiquata monarchia affiancata da una casta di burocrati come ministri, molti dei quali in gioventù erano stati dei rivoluzionari.

 

I fatti del 1864 a Torino rendevano, pertanto, palese l’arretratezza civile e politica dell’Italia.

 

Poi è normale che il lettore tragga le proprie conclusioni sul modo di agire di un gruppo di persone prive di scrupoli. In seguito alla strage i ministri sono stati dimissionati per poi ritornare dopo breve tempo a ricoprire incarichi importanti. Minghetti e Peruzzi saranno poi celebrati nelle loro città d’origine come grandi statisti. Le inchieste evidenziarono i fatti, ma senza parlare esplicitamente di responsabilità, neppure politica, di quel governo. Venne criticata la condotta delle forze dell’ordine, ma senza approfondire le responsabilità personali. È facile individuare una certa somiglianza con comportamenti in epoche successive da parte di personaggi politici o dalle stesse forze dell’ordine.

 

Da questa ricerca appare chiara l’origine antica delle problematiche complesse del nostro Stato.

 

Francesco Ambrosini torinese, dopo varie esperienze di lavoro in Italia e all’estero, si occupa di ricerca storica e collabora con case editrici. È traduttore dalla lingua inglese, francese, spagnola e portoghese.

Ha pubblicato: Tutta la storia del Titanic, Edizioni Il Capricorno, 2012; Giornate di sangue a Torino: 1864: la città non è più capitale, Il Punto, 2014 e, in collaborazione con Filippo Ambrosini, Garibaldi, Edizioni Il Capricorno, 2011 e L’ussaro e Margherita. Romanzo Giacobino, Neos Edizioni, 2014.

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Articolo pubblicato il 06/07/2014