Saba Anglana: la riscoperta, in musica, dell'Africa tradizionale.
Saba Anglana

La cantante italo-etiope racconta se stessa e la sua musica in un'intervista ricca di vita vissuta e sogni.

Nata a Mogadiscio da mamma etiope e padre italiano. Sei dalla nascita in contatto con i suoni dell'Africa: che melodie porti e cosa vuol dire per te cantare su un palcoscenico?

Voglio farti un esempio: quando ho iniziato a registrare, nel 2012, "Live in Changanyisha" ero insieme a Fabio Barovero, produttore artisto e co-autore di tutti i miei album, nella parte sud del Kenya e abbiamo deciso di registrare sul campo alcuni brani di questo album, eravamo come degli etnomusicologi. Abbiamo registrato le voci dei masai ricreando uno studio musicale, in loco abbiamo perfino appeso i microfoni, un lavoro piuttosto rudimentale in mezzo alla savana. Io dirigevo le voci dei giovani masai, erano un coro, ed era sorprendente il loro entusiasmo; è vero le condizioni acustiche non erano le migliori ma volevo un lavoro autentico.

Ogni volta che la musica iniziava, il coro di masai, composto da bambini e adolescenti, incomincia a muoversi e a ballare. Ero preoccupata inizialmente per il suono, avevo paura che fosse impreciso, normalmente si cerca di stare ben fermi durante una registrazione di un brano; a complicare il tutto è stato il dover regitrare non un solo take ma più di uno e a causa dei continui movimenti e balli erano spesso stanchi. Mi è stato impossibile fargli capire che potevano anche rimanere fermi e cantare senza ballare, per loro era infattibile scorporare la voce dal movimento, come se i due elementi fossero connaturati.

Questo esempio nasce per far capire la mia musica. Inizialmente nella mia carriera anche io facevo lunghe lezioni di canto, il mio atteggiamento con la musica è sempre stato molto istintivo e volevo provare a dargli delle regole. Durante queste lezioni l'impostazione era molto rigida, si imparava a respirare con il diaframma, a non muovere la testa durante il canto, insomma erano le regole di base per tirare fuori dal cantante il miglior suono possibile.

In buona sostanza da un lato abbiamo i masai che per cantare hanno bisogno di movimento dall'altra la rigida scuola di canto, immaginate che tra i due estremi si muove la mia musica anche se, ovviamente, sul palco e durante le mie esibizioni, probabilmente anche grazie alle mie origini, la mia personalità è più scatenata che rigida, segue le sonorità che porto. Io non sono una cantante africana e questo tendo a sottolinearlo sempre, sono metà etiope e metà italiana, pensare che tendo più da una parte che dall'altra è riduttivo. Sul palco porto dunque me stessa, i miei movimenti nascono dal non saper scoporare la voce dal ballo, come nel caso dei masai, il canto diventa una performance e se ti lasci attraversare dalle emozioni di quello che stai cantando sicuramente può capitare di perdere in termini di prestazioni tecnica ma acquisti qualcosa di molto prezioso: emotività e capacità di emozionarsi per emozionare.

Tra il 2007 e il 2008 esce "Jidka (The Line)": il tuo disco d'esordio per l'etichetta inglese World Music Network. Cosa ti ha portato la collaborazione con Phil Stanton?

E' stato incredibile per me, il mio disco di debutto pubblicato per la River Boat, la collana d'elitè della World Music Network. Questo mi ha permesso di entrare fin da subito in un piccolo Olimpo della musica, dandomi in breve tempo molta visibilità, sopratutto internazionale, facendo uscire il disco in moltissimi Paesi. E' stata una distribuzione capillare che ha consentito non solo di far conoscere la mia musica, anche in zone considerate remote, ma ho avuto la grande occasione di conoscere molte persone della diaspora che vivono lontane dalla loro terra d'origine, negli Stati Uniti ma anche in Sud America, che, grazie alla musica, ho fatto sentire un po' più vicini a casa e alle tradizioni. Phil, dopo aver ricevuto i miei brani, ha voluto subito incontrarmi a Cannes per propormi una collaborazione che non ho esitato ad accettare.

L'Africa ispira i tuoi lavori, com'è nata la tua musica?

Dev'esserci una spiegazione antropologica all'espressione: "Gli Africani hanno la musica dentro". Le lingue africane hanno una grande musicalità, sembrano lingue cantate e il linguaggio, la struttura semantica, il ritmo e le parole suggeriscono un movimento. Nella mia storia c'è tanta musica fin da bambina perchè mia madre e le sue sorelle ad ogni occasione accendevano la radio; erano periodi quelli in cui in Africa la televisione non c'era, si ascoltava molta radio e si usava il giradischi. In casa mia risuonava sempre la musica, il giradischi non era mai spento e si ballava in continuazione, ogni occasione era un motivo per fare festa. Quando, per questioni politiche, siamo stati costretti a lasciare la Somalia, ci siamo stabiliti a Roma, abbiamo lasciato l'Africa ma il nostro modello di vita non era cambiato, si era trasferito con noi, la musica e i dischi risuonavano sempre, come a Mogadiscio.

La mia ambizione è quella di fare una musica al di là dei confini geografici in cui vengano salvaguardate le minoranze; quando parlo di minoranze non intendo gli ebrei emigrati in Australia o gli indiani che vivono in Europa, la minoranza nel mondo è rappresentata da tutte quelle persone che nascono da diverse culture, come me che sono italo etiope, e non hanno una comunità riconosciuta di riferimento. Ecco perchè non uso mai una sola lingua, non troverete mai gli stessi strumenti, io pesco nelle varie tradizioni che sento mie, pesco nei ricordi d'infanzia che vivono in me, ma li trasformo da qualcosa di tradizionale in qualcosa di mio, li evolvo in una musica che rispecchia me.

Che differenza c'è tra Saba nella vita quotidiana e Saba artista?

C'è molto di me in ogni disco, l'ultimo però è differente dai precedenti. Sono molto introspettiva, scendo giù in basso, scavo molto all'interno di me stessa, sono vicina a concetti importanti come la morte e l'abbandono, ho da sempre l'esigenza di dare uno sguardo poetico ai grandi temi. Analogamente anche se cerco di restituire totalmente questa malinconia di fondo, comunque nella musica avviene il superamento, c'è l'esorcismo e la speranza. Ye Katama Hod è sicuramente un album più scuro dei precedenti, una sorta di "The dark side of Saba" come mi hanno detto, ma è un disco in cui poi emerge la vita.

Se parli della morte in realtà stai parlando della vita, arrivi a parlare della vita toccando dei temi scuri e profondi ma che sono necessari per arrivare a lei. Nella mia discografia non potrà mai esistere un disco depresso, ma è più forte di me, arriverò sempre a parlare della vita.

"Biyo", il tuo secondo lavoro, viene pubblicato nel febbraio del 2010 riscuotendo molto successo. Che effetto fa vedere il proprio album in classifica direttamente nella top '20 della European Top Chart Of World Music?

Io ho un atteggiamento molto disincantato, in maniera sana, rispetto a tutto ciò che riguarda le classifiche, la visibilità e la ribalta perchè molto spesso queste situazioni sono figlie o della casualità o di meccanismi che non sono esattamente meritocratici. Ovviamente mi fa piacere ma ho i piedi per terra.

Il successo vero secondo me è legato alla circolazione delle emozioni che tu riesci a ortare sul palco e quando vedi che l'emozione parte, arriva al pubblico e ritorna, quello è il momento più grande che puoi ottenere. il successo mediatico invece, sopratutto per molti artisti che non sono conosciuti, è molto difficile da ottenere, magari sono bravissimi e avrebbero molto da dire e da dare ma rimangono invischiati in questo meccanismo e non riescono ad emergere.

Io in questo sono stata molto fortunata, c'è chi ha creduto in me e nella mia musica, ho ottenuto abbastanza fama a livello internazionale e questo mi ha permesso di esprimermi con una musica che io definisco autentica, molto vicina ai miei bisogni. Quando la società non sarà più schiava dei numeri, delle vendite, dei mi piace sui social, allora finalmente emegerà anche una musica diversa, preziosa, che fin'ora è stata nascosta. Non mi piacciono i talent show, trovo che la competizione uccida l'espressione, la vera espressione del cantante o del musicista. 

Io sono più conosciuta dalla diaspora africana, nell'Africa fuori dall'Africa per intenderci, che, sentendo i miei album, si ricordano della tradizione, della canzoncina che magari la loro nonna cantava per fargli addormentare quando erano piccoli. Ed ecco come la musica si trasforma in casa per chi è senza casa, la musica si abita, per cui molte di queste persone abitano nelle mie canzoni e ritrovano una sorta di patria fuori dai loro confini geografici.

Che qualità deve avere un artista, secondo la tua esperienza, che vuole svolgere questo mestiere?

Ci sono tantissime persone che hanno una grandissima voce, molti talent puntano proprio su questo, ma il problema è che alla fine ci sono sempre più cantanti che cantano allo stesso modo; ci sono i soliti artisti di riferimento e tutti cantano "o come qesto o cme quello", non c'è personalità, ci sono molti imitatori più che artisti. Quindi la differenza tra chi sa cantare o suonare bene, un virtuoso della voce o di uno strumento, e un artista è sicuramente la visione del mondo, quella che nel mondo universitario viene chiamata weltanschauung: tu attraverso la tua storia personale, la tua formazione culturale, i tuoi sentimenti, le tue esperienze e attraverso alla visione politica delle cose esprimi quella che è la tua visione del mondo e la racconti agli altri.La voce è uno strumento, se tu ti fermi allo strumento e non dici qualche cosa di tuo, sei un interprete, questa è la differenza tra te e l'artista.

Arriva il 2012 e con esso anche l'uscita del tuo terzo album "Life in Changanyisha" registrato in Tanzania e cantato in lingua swailii. Che emozioni ti ha trasmesso questa terra?

In Tanzania, sopratutto nelle città marine, ho trovato nelle persone e nella struttura cittadina, una terra molto vicina a quella che era Mogadiscio, significava un po' come respirare l'aria dell'infanzia. A Zanzibar sono venuta in contatto con musicisti molto paricolari, della taarab music, che è una musica ponte tra il mondo africano e il mondo arabo, ed è stata una grande fortuna averli incontrati, molto suggestivo lavorare con loro. Ogni volta che arrivo in un nuovo Paese io vivo la loro realtà, scopro il Mondo, e la mescolo alla mia musica, è un modo nuovo secondo me di fare musica.

Il 21 settembre è uscito il tuo ultimo disco: "Ye Katama Hod - The Belly Of The City" e questa volta canti in amarico e in inglese. Che cosa differenzia, oltre alla lingua, questo ultimo tuo lavoro dai precedenti?

Come ho già detto prima è un lavoro più d'introspezione sui grandi temi, è un lavoro che celebra la vita attraverso la morte. E' un album dove si sperimentano molti strumenti, diversi dai precedenti, l'arrangiamento è essenziale. Il suono viene "svuotato", è come se avessi lavorato per sottrazione.

Saba è una cantante unica nel suo genere, è se stessa e non vuole assomigliare a nessuno, ha in sè un arcobaleno di colori che racchiude diverse culture, differenti suoni e occhi pieni di esperienze fatti a piedi nudi nel mondo. Non ricerca la fama ma i suoni, i sentimenti sono un punto di partenza per costruire, le persone che incontra arricchiscono la sua musica e la sua vita. "Ye Katama Hod" è un disco che parla di tradizione e di modernità, di identità violate e dignità riconquistate. Il titolo dell'album definisce ogni città, specialmente ogni metropoli,come un'entità vivente, in continua espansione. Il suo interno, la sua pancia, è il luogo dove avvengono le sue trasformazioni, quelle più autentiche. Il disco mette a nudo queste città rivelandone anche le malattie presenti al loro interno, da lì prendono forma i disagi, le contraddizioni, le sofferenze che catalizzano i grandi cambiamenti storici e sociali. Per chi volesse acquistare il suo album lo potete trovare nei più grandi distributori di dischi e nelle piattaforme on line. Nel suo sito www.sabaanglana.com troverete tutte le date del suo tour invernale, in particolare per chi è in Piemonte segnaliamo la data del 12 novembre ad Asti presso il Diavolo Rosso.




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Articolo pubblicato il 07/11/2015