
Come previsto, la storica carrozzeria torinese è passata alla Mahindra, per 160 milioni totali; un'ennesima bruciante sconfitta per il tanto decantato quanto poco supportato made-in-Italy?
"I soldi non hanno passaporto" - l'affermazione unanime dell'a.d. Pietro Angori e del nipote del fondatore, nel commentare la chiusura dell'operazione - è la versione aggiornata del motto latino pecunia non olet nell'era dell'economia globale: dopo la misera fine recentemente toccata alla fallita Bertone (la cui collezione di vetture e prototipi, messa all'incanto a più riprese - come già riferito su Civico20 -, è stata aggiudicata ad un acquirente sconosciuto per circa 3,5 milioni di euro, mentre l'asta per il marchio della gloriosa 'b' è andata deserta) e l'alienazione dell'Italdesign di Giorgetto Giugiaro, venduta all'Audi (ma magari pronta a tornare presto sul mercato, date le note difficoltà del Gruppo Volkswagen), quando di Ghia (in mano a Ford) e dei molti altri non resta che il nome, l'ultimo grande carrozziere storico piemontese sulla piazza, probabilmente il più celebre ed iconico, Pininfarina, cede le armi - senza troppi onori - a Mahindra & Mahindra. A compimento di quel che s'era da tempo preannunciato, l'omonima famiglia proprietaria dell'azienda, erede del mitico Battista, avendo attraversato drammi esistenziali (la morte del presidente Andrea, nel 2008, poi sostituito dal fratello Paolo) e parecchi problemi finanziari, dovuti alla crisi mondiale, nonché varie vicissitudini nelle trattative, con le relative montagne-russe del titolo in borsa, s'è accordata per cedere al costruttore indiano l'intero pacchetto azionario di controllo (76% del capitale, detenuto tramite la holding Pincar e attualmente in pegno alle banche creditrici), per la cifra tutto sommato modesta di cinquanta milioni, più 110 in garanzie sul debito.
Diciamo che a guardare i modelli di auto e SUV sfornati a Mumbai, lo stile subalpino a loro servirà assai; vien però spontaneo domandarsi se, a partire dalla "splendida" data odierna, si possa parlare, a ben vedere, dell'apertura di un "nuovo entusiasmante capitolo" per le leopardiane magnifiche sorti e progressive, in conformità alle dichiarazioni obbligate dei vertici della Società nata a Torino nel 1930, ossia di un rilancio, di una fenicea resurrezione dalle ceneri, oppure della caduta dalla padella nella brace degl'inferi della rimembranza, triste tramonto al termine della parabola di declino d'una nobile, prestigiosa realtà produttiva di cui sia destinato a rimanere solo il blasone, forse, a futura memoria.
Ci assale inoltre il rammarico che nessun "capitano coraggioso" dell'industria nazionale (sempre che tale termine di limite territoriale conservi adesso un barlume di senso), ovvero i poco lungimiranti tentacoli di Exor (Agnelli-Elkann), quali l'anglo-olandese-americana FCA (cioè Fiat-Chrysler) o l'italo-olandese Ferrari, i cui bolidi son rivestiti appunto dalle linee concepite a Cambiano, si sia offerto di rilevare un simile gioiello del tanto vantato (a parole) quanto svalutato (nei fatti) made-in-Italy, giustappunto, capace di creare "sculture in movimento" esposte in permanenza al MoMA.
Anche le lamiere piangono.
(e.s.l.)
per le immagini a corredo del testo © aut./Pininfarina/Mahindra
MAUTO
Museo Nazionale dell'Automobile "G. Agnelli"
di Torino
C.so Unità d'Italia, 40 – Torino
Info: 011-677666
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Articolo pubblicato il 16/12/2015