L'angolo della poesia: Odissea

Traduzione in endecasillabi incatenati del Poema Omerico: Telemaco a Pilo.

 

 

Telemaco a Pilo

 

 

           Quello che vide fu che sorse l’alba,          

al fin dello tragitto di nottata,

di quando novo Sol traduce scialba,

 

la danza dei color, ora destata,

in chiara luce e soavi giochi.

D’Ulisse il figlio avea ora trovata,

 

di Pilo la città, coi grandi fochi,

voluta da Nelèo e da Nestòre,

che Ercole serbò, uno tra pochi.

 

E vide quanto i Pili, con ardore,

menassero quei tori color pece,

in riva ‘l mar, sospinti con rigore,

 

per immolare, quelli con la prece,

al dio del mar, che chiamasi Nettuno.

Contassi nove seggi ch’avean vece,

 

di nove altri gruppi, in raduno,

ciascun di cinquecento membri era.

Telemaco mirava, uno ad uno,

 

li tori che cadevano con fiera,

e forte dignità d’esser scannati,

per mitigar del dio, grande collèra.

 

E Mentore sbarcò, mirando ai lati,

la folla che stava sacrificando,

con cura quelli tori immolati.

 

“Telemaco tu vai!, presto cercando,

di Nestor veritate su tuo padre,

e prega che ti dia, sia pur domando,

 

lo verbo che, di gran dolor sia madre”.

Il giovine movè alcun pensiero,

dicendo che le forme, sue leggiadre,

 

ponevan grav’intoppo, al dire fiero,

 temendo di parlar a simil vecchio.

Atena lo toccò, sopra ‘l cimiero,

 

facendo rimbalzar rumor di secchio,

e disse che sebben, v’era ragione,

 dovea far del cor, potente specchio

 

e raccontare si, con decisione,

la pena che, in sé egli portava.

 Atena si partì, in conclusione,

 

e lui a tratti poi si discostava,

 non vinta ancor, in core la paura,

ed il pensiero poi dimenticava.

 

Al fine ei giungette, ma fu dura,

in vista dello gran corteo dei Saggi,

protetti da dellè robuste mura,

 

e vennero a lor, aitanti paggi.

 Pisistrato fu primo a ‘nvitare,

con sacri modi, retti nei retaggi,

 

Telemaco e la de’, a banchettare,

offrendo di brindar a Poseidone,

e a tutte le creatur che son nel mare.

 

E fu si grande ancor la libagione,

e tanti funno i calici levati,

“Grande Nettun ascolta chi t’intone,

 

grandi lusinghe in versi tanto grati,

assisti noi in grand’imprese accinti,

sapendo che, a te siam noi legati,

 

concedi che, i vili siano vinti,

trafitti dalla man, dell’Itacese,

e figli poi di Nestore sian cinti,

 

di grandi onor, ed in ogni paese”.

Così Pallàde disse a lor cospetto,

parole che nei cor han fatto prese,

 

porgendo con il massimo rispetto,

al giovine figliol, tazza dorata,

al fine che potesse dir di getto,

 

grande orazion, ancora più ‘ntonata.

E dolce fu la prece ch’egli disse,

toccando tutti cor della brigata,

 

e giunse allor momento che si aprisse,

vedendo che parea già tutto retto,

la danza, che la rubra carne visse,

 

 

   schiudendo poi le porte, allo banchetto.

 


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Articolo pubblicato il 03/03/2016