Le motociclette sportive italiane anni 70: oggetti di culto

Icone di un'industria che non esiste più e veloci, romantici souvenir di tempi migliori.

È triste assistere al quotidiano olocausto dell'industria italiana camuffato da un monoteismo politico che santifica se stesso e da un'informazione servile che inneggia a una ripresa economica regolarmente smentita.

La verità è semplice, l'industria italiana non esiste più. Le colpe? Per lo più politiche. L'origine? Uno strisciante disegno internazionale che vedeva male un'Italia del dopoguerra "miracolo economico" che a metà degli anni 60 aveva superato la Gran Bretagna, palleggiava con la Francia e stava per acchiappare la Germania. Davamo fastidio! Ma c'è dell'altro.

Negli anni 70, per sciagurate scelte finanziarie che hanno portato la Banca d'Italia ad essere altra cosa, l'imprenditoria è stata presa tra due fuochi. Il primo: la seduzione dei titoli di Stato anziché investire nell'azienda. Il secondo: un allontanamento delle banche dal cliente "fabbrica", trasformate in templi dell'accumulo finanziario quasi fine a se stesso.

I risultati: diminuzione degli investimenti, aumento del debito pubblico, della tassazione, degli interessi del credito e diminuzione della competitività. Fine del miracolo economico.

Se poi si aggiunge il ruolo della mostruosa macchina burocratica, eccoci qua: nazione corrotta e svenduta, zeppa di impiegati pagati per dar la caccia ai conti correnti, mentre i monsignori amministratori pubblici fanno man bassa.

È un discorso lungo e non è quello che qui si vuol trattare, ma una piccola premessa ci voleva, se si vuole fare un tuffo nel passato dedicato alle motociclette, oggetti del desiderio popolare; prodotti di quando l'industria italiana avrebbe potuto fare l'asso pigliatutto del settore, ma non fu così.

Colpa anche di un tipico provincialismo tutto nostrano, caratterizzato da colpi di genio e poi titubanze, campanilismo familiare e corta visione italica verso solide strutture aziendali, aggregazioni, innovazione e sviluppo.

Peccato perché, dopo la geniale invenzione dello scooter e della sempiterna Vespa, alla fine degli anni 60, le Gilera, le Aermacchi, le Benelli - Motobi e le Morini erano le migliori piccole cilindrate sulla faccia del mondo.

La Motobi Sprite 200

Negli anni 70 poi, si perse il treno perché nel momento di quel boom delle grosse cilindrate, la MV Agusta, che vinceva tutto nel campionato mondiale, partorì una 750 che non era un buon prodotto commerciale.

Ci provò e lo fece la Laverda, con la 750 SF, una moto moderna e bellissima, da cui si ricavò l’SFC, leggendaria cavalcatura per gare di durata che a quel tempo erano più importanti del campionato mondiale, e poi con la 1000 3C, tardiva risposta al dilagare giapponese, e la 6 cilindri a V, pochi prototipi sportivi con un fantstico pripulsore non entrato in produzione di serie a causa dei soliti problemi di budget delle piccole realtà industriali. 

Oggi, il marchio, proprietà del gruppo Piaggio, giace inutilizzato, mentre sarebbero in tanti a fremere per vederlo ricomparire, magari con qualche bel modello "vintage" così come ha fatto la Triumph con la Bonneville, risorgendo dalle ceneri e tornando importante.

La SFC 750 per gare di durata

Lo fece la Moto Guzzi, nome leggendario che, dopo aver dominato le corse nell'anteguerra, resistendo sul mercato anche dopo con l'indistruttibile Falcone 500 e rinnovandosi con la V7, 700 e 750, seguita dalla sport 750 , dall'850 Le Mans e da una lunga serie di altri modelli. Pezzi oggi molto ricercati, con il propulsore a ''V'' comune a tutti,  fortunato riciclo di un motore pensato per essere automobilistico. Uno schema che resiste ancora adesso su modelli di cilindata 750, onesti e a buon mercato, e altri di maggiore cubatura, ma dal design turistico non proprio azzeccato.

Strane scelte per un nome ancora importante che potrebbe riconquistare in fretta delle belle fette di clienti se guardasse alla BMW, a come ha coniugato: tradizione, innovazione, qualità e design, diventando leader del mototurismo veloce.

La V7 sport del 1971 telaio rosso

Lo fece la Ducati con un motore a ''L'' che era un'opera d'arte. Quel “desmo” progettato dall'ingegner Taglioni e che, sotto altra veste, moderna, rossa e vincente, tiene banco ancora adesso.

La Ducati aveva anticipato i tempi dell'enduro con le eleganti Scrambler 350-450, ma con le 750 - 900 avrebbe potuto offrire un prodotto eccezionale se fosse scesa sul mercato senza perdere troppo tempo e con una serie di modelli un po' meno cari, più rifiniti ed esteticamente più curati.

E fu un peccato, perché il marchio Ducati, famoso in tutto il mondo, ha resistito, nonostante le tante traversie di un’azienda che avrebbe potuto raggiungere ben altri risultati se gestita come è adesso, da una grande azienda tedesca famosa per i suoi quattro anelli.

L'SS 900 desmo

Tutto accadeva in fretta in quegli anni 70, il prodotto italiano mise in crisi le bicilindriche inglesi, ma  subito dopo, le veloci, scintillanti moto giapponesi, figlie di colossi industriali e di tecnologia, sbarcate nella penisola, fecero man bassa del mercato, lasciando indietro le italiane, incapaci di tenere il passo non tanto sulla strada quanto nella gamma dei modelli, nella continua innovazione, nell'estetica e nel prezzo.

In quel periodo il prodotto italiano tenne comunque botta con buone motociclette e le sfide velocistiche tra Kawasaky, Honda, Laverda e Ducati erano splendidi, disdicevoli appuntamenti notturni lungo i viali deserti o nei raccordi delle prime tangenziali.

Storie di quando un casco integrale e un giubbotto di pelle erano la divisa da indossare per i cavalieri del bar, eroi dello stacco modulato della frizione pronti alla giostra. Diapositive di quando queste pittoresche tenzoni diventarono un apprezzato, sardonico, autocritico fumetto oggi improponibile: Joe Bar Team.   

Momenti di un tempo in cui tante cose erano diverse e la gente comune, quasi complice di queste sfide, competizioni gratuite, spettacolo in diretta, perché c'era ben poco di tutto questo in televisione.

Storie anni 70-80, momenti in cui anche le medie cilindrate italiane avevano il loro mercato dedicato ad utenti più ''turistici'' e attenti ai costi limitati.

Le 350 nei percorsi collinari non sfiguravano a confronto con le cilindrate maggiori e per scelte protezionistiche erano quasi tutte made in Italy. Moto Morini, Aermacchi, Benelli, Guzzi ed MV, aziende medio/piccole che misero su strada onesti mezzi senza cogliere l'occasione, così come per le sorelle maggiori, di raggrupparsi, di inventarsi qualche nuovo, moderno, prestante motore.

Risultato: lente agonie di piccole e grandi aziende, e di moto italiane che oggi però, come zombie estratti dalle tombe, stanno diventando ricercati oggetti da scovare nelle cantine e da restaurare con cura e con amore.

La Morini 350 Sport prima serie, detta''tamburone'' per il grosso freno anteriore

Oggetti apprezzati con colpevole ritardo e soprattutto all'estero; motociclette da sfoggiare e usare con orgoglio una volta riportate a nuovo, o personalizzate in special e pezzi unici (non sempre azzeccati) da mettere in mostra sul lungomare.

E intanto si moltiplicano i club dei marchi storici, i raduni, le competizioni rievocative, i mercatini, le iscrizioni all’ASI.

Il risultato di tutto questo ha una morale e la motocicletta è un esempio per un nostro stile di vita che forse è da rivedere. Dalle sue belle forme antropomorfe ci sussurra che forse abbiamo troppo e ci manca qualcosa che avevamo già.

Lo sviluppo sfrenato ha allontanato l'uomo dal suo stesso prodotto e l'avvicendarsi di modelli sempre più perfetti ha tolto filosofia, sentimento, complicità, rispetto per piccoli difetti che stabilivano un rapporto affettivo basato sul bilanciamento delle rispettive debolezze; quelle dell'uomo e dell’attrezzo.

Oggi la tecnica che divora se stessa è già superata da un futuro che incalza, seduce meno e forse confonde. Vale per le motociclette come per tante altre abitudini tecnologiche che, sempre di più, per chi li ha vissuti, fanno rimpiangere quei tempi più spensierati, genuini e semplici.

C'è da dire che da un po', si stanno raggruppando vecchi marchi in pochi gruppi industriali. Operazioni imprenditoriali che si stanno muovendo con quarant'anni di ritardo e risultati non sempre esaltanti. È inutile copiare i giapponesi adesso. Meglio sarebbe far buona meccanica e design italiano, quel che dovevamo mostrare al mondo allora e che, potendo e volendo, sappiamo ancora fare.

Peccato siano solo esercizi di design...

 

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Articolo pubblicato il 03/04/2016