Settembre in bianco e nero - Parte 3

Tre film consigliati per voi dal vecchio cinema di ieri, ancora oggi più vivo e vero del cinema di oggi

Oggi parliamo di tre autori con il quale il cinema arriva ad essere poesia, 3 figli dei tempi difficili e delle vite contorte e piene di esperienze (positive o no) che hanno vissuto.

Tre personaggi che sono tre punti cardinali del cinema dei loro tempi, ovvero lo spagnolo "re del surrealismo" Luis Buñuel, il nostro "poeta della strada" Pier Paolo Pasolini e lo svedese Ingmar Bergman, "regista dell'anima" per eccellenza.

Autori di storie e personaggi unici e indimenticabili, come lo storico "Il settimo sigillo" per Bergman, con un Max von Sydow nel ruolo di reduce dalle Crociate che al suo ritorno trova ad attenderlo niente meno che la morte in persona, un Bengt Ekerot iconificato come figura incappucciata che sfida il cavaliere ad un ultima e fatale partita a scacchi dove in palio c'è la sua stessa anima dannata.

Un film mai dimenticato dal sottoscritto, come poi aggiungiamo anche il famoso "Accattone" di Pasolini, ovvero l'emarginato per antonomasia, nullafacente mantenuto da una prostituta che è il simbolo del fallimento più basso di un Italia senza futuro, uomo che quando cerca di cambiare per il meglio fa ancora più danni e risulta ancora più patetico di quando si comporta da criminale.

Film dall'apparenza realistica ma in realtà "riempito tra gli spazi" dei buchi di recitazione e sceneggiatura dalla stessa capacità immaginifica di Pasolini, con i silenzi dei volti o le melodie estranianti di un brano di classica volto a portare lo spettatore via dalle strade dell'Italia, su un altro pianeta in una galassia lontana e inesplorata.

Altrettanto immaginifico e realista al contempo è poi lo splendido "L'angelo sterminatore" di Buñuel, con i suoi ospiti costretti alla convivenza forza "per magia" in quanto impossibilitati a lasciare la casa dopo una cena assieme.

Una costrizione che sbriciola la maschera delle buone maniere tacite e convenute, riducendo a bestie intrappolate alla tagliola i ricchi borghesi che fino solo alla sera prima sembravano tanto affabili, simpatici e ragionevoli.

Un surrealismo che sposta il piano di intento e che non ha più aspettative sul film di maniera, sorprendendolo con poche scelte essenziali dei protagonisti senza dare mai una spiegazione concreta del "perchè" stia succedendo quel che succede, lasciando come giusto il compito di trovare una risposta allo sbigottito spettatore.


I FIGLI DELLA VIOLENZA (1950 - Luis Buñuel)
Ambientato negli anni '50 a Città del Messico, molto vicino spiritualmente allo "Sciuscià" che vi avevamo consigliato qualche settimana addietro nel descrivere la vita della micro-criminalità infantile nelle periferie povere delle grandi città metropolitane.

Ragazzi abituati a piccoli furti, truffe e ogni espediente possibile e immaginabile per tirare avanti alla giornata, in una realtà dove il lavoro onesto è praticamente impossibile.

Finchè il più grande e cattivo di loro riesce a radunare i ragazzini in una piccola banda, spingendoli a diventare sempre più perfidi e derubare poveracci messi peggio di loro come un vecchio cieco con cui avevano finto amicizia fino a poco prima.

Un micro-mondo fatto di bambini abbandonati a sè stessi, offesi, malnutriti e maltrattati al punto di non aver nessuno riferimento morale e nessuno scopo se non quello di primeggiare "con la violenza" nello sporco e la polvere delle strade malfamate e gli edifici marcescenti dei quartieri poveri della capitale messicana.

Perfino il bel gesto di un poliziotto che vorrebbe essere gentile e fidarsi di uno di loro finisce soltanto per inguaiarlo ulteriormente, rendendolo vittima di un furto per i soldi a lui affidati per svolgere una semplice commissione.

Buñuel ci racconta una storia spietata, senza neppure l'ombra di un possibile lieto fine per nessuno dei protagonisti, lontano dal cinema da e per bambini di solito favoleggiante e pieno di buoni propositi e buoni sentimenti spiccioli.

Un film falsamente "basato su fatti realmente accaduti", nel senso stretto del termine, anche se è più realistico di tanti altri film pur essendo surrealista alla base e nell'anima della sua regia, povera nei mezzi ma ricca nello spirito e l'immaginativa di un grande regista unico nel suo genere.


MAMMA ROMA (1962 - Pier Paolo Pasolini)
Secondo film di Pasolini dopo "Accatone" di cui abbiamo parlato sopra, è praticamente uno dei film più amati del cinema italiano e il manifesto più evidente della grande bravura della nostra Anna Magnani.

Magnani qui nel ruolo di una prostituta che ce la mette tutta per lasciare "la vita" e diventare una donna rispettabile, specie per il bene del figlio che non ha idea di cosa faccia per tirare avanti.

Figlio che però è sempre sull'orlo di essere risucchiato dalla criminalità che lo circonda, nonostante le attenzioni e gli interventi della madre, la quale è obbligata a prostituirsi di nuovo dal suo ex-protettore ritornato in città e fermamente intenzionato a sfruttare la donna sulla strada.

Una poesia triste e comica del sottoproletariato nel boom italiano degli anni '60, incorniciata dalla bellezza solare e genuina e la sguaiata e volgare ignoranza della Mamma Roma nazionale, icona di un Italia "materna" alla pari della Sofia Loren ne "La ciociara" di pochi anni prima.

I personaggi maschili di questo universo sono tutti cattivi o stupidi, vittime delle donne come il padrone del ristorante ricattato per dare lavoro al figlio; oppure carnefici e aguzzini come lo sbandato protettore che riporta la donna su una vita che è dura da lasciarsi alle spalle.

Un film ripreso come un dipinto d'epoca da Pasolini, con lente pennellate fatte di grandi e ampie inquadrature e lunghi piani sequenza; grandi e piccoli dialoghi tutti in dialetto tra le strade e per le vie della periferia più povera della Capitale italiana.


PERSONA (1966 - Ingmar Bergman)
L'anima femminile è sempre stato un territorio misterioso per gli uomini, specie nel caso di un film come questo "Persona", abbreviazione semantica di "Dramatis persona", dalle maschere in uso dagli attori nel teatro latino.

Ed è proprio un'attrice una delle due protagoniste, una donna che si rinchiude in un misterioso silenzio e viene affidata alle cure di un infermiera con si annoda in un rapporto sempre più stretto e inesplicabile.

Interamente diviso tra una camera d'ospedale e una spiaggia deserta, dove l'infermiera sciorina tutta la sua vita all'attrice che si rifiuta di fingere ancora per il divertimento altrui, prigioniera del personaggio in cui tutti la riconoscono ma con cui non vuole più avere a che fare.

L'iniziale distanza tra le due donne perde terreno mentre i giorni passano e gli aneddoti personali e le disillusioni di ciò che ci si aspettava in gioventù e ciò che è oggi sono troppo amare e inconfessabili per venire veramente a galla.

Molto meglio rinchiudersi in un silenzio auto-imposto come l'attrice, che parlerà solo poi nel finale quando il rapporto tra le due donne sarà irrimediabilmente rovinato da un insuperabile incomprensione ed egoismo da parte di entrambe, più disposte a raccontare sè stesse che ad ascoltare gli altri.

Una regia semplice e pulita di Bergman ci accompagna per tutto il film in maniera quasi invisibile, tranne nelle "fusioni" dei volti delle protagoniste, talmente sovrapposte a volte da sembrare (appunto) una "persona" sola.

Un film non facile e non per tutti, ma solo per coloro che hanno un'anima disposta ad ascoltare e che non abbia paura del silenzio quasi soppesabile e rotto solo dallo scroscio mare che si infrange sulla spiaggia.

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Articolo pubblicato il 21/09/2017