Torino. Maria Luisa Baldassarri, Paladina dell’Oratorio Italiano

Intervista al direttore dell’ensemble “ Les Nations”, protagonista del concerto “Me lasserà tu mo” in programma venerdì 26 gennaio a Palazzo Barolo

Nel corso di una discussione avvenuta qualche tempo fa al Classical Next di Rotterdam – la manifestazione legata al mondo della classica, che da qualche anno ha di fatto preso il posto del MIDEM di Cannes – un noto professional italiano ha dichiarato senza mezzi termini che il repertorio barocco ha ormai perso la carica che negli ultimi due decenni del secolo appena trascorso aveva contribuito ad aprire gli orizzonti fino ad allora relativamente limitati dell’industria discografica.

In realtà, si tratta di un giudizio quanto meno superficiale, in quanto se è vero che in ambito strumentale le continue first world recordings hanno riportato alla luce poche opere di valore assoluto, non di meno bisogna riconoscere che in quello vocale ci sono ancora moltissimi lavori di grande interesse – non di rado di autori di prima grandezza – che aspettano di essere riscoperti e rivalutati ai massimi livelli.

In particolare, il genere dell’oratorio fiorito in Italia tra il XVII e il XVIII secolo continua a essere in gran parte negletto, nonostante la suggestiva bellezza dei suoi capolavori e la sua indiscutibile importanza storica.

Per questo motivo non si può che salutare con entusiasmo l’uscita del Giona di Giovanni Battista Bassani, registrato dall’Ensemble Les Nations diretto da Maria Luisa Baldassari e pubblicato dall’etichetta bolognese Tactus, che in passato si erano già dedicati con grande profitto a questo ambito repertoriale.


Il mio incontro con Maria Luisa Baldassari non poteva che aprirsi con la domanda più ovvia, sulle motivazioni che l’avevano spinta a scegliere questo oratorio tra le centinaia di altri lavori in attesa di essere riscoperti e – più in particolare – a volgere la sua attenzione su Bassani, compositore originario di Padova e quindi lontano dagli autori attivi a Bologna come Giovanni Paolo Colonna, Giacomo Antonio Perti e Domenico Gabrielli che l’ensemble bolognese ha preso in considerazione fino a questo momento.

«La scelta di Bassani è stata causata da diverse situazioni concomitanti: premetto innanzitutto che ho sempre avuto un vivo interesse per i compositori “minori”, in quanto a volte vale la pena di andare a cercare nelle pieghe della storia, anche solo per la curiosità di scoprire di più su ciò che veniva ascoltato in passato. Bassani è un compositore di grande qualità artistica, che ha spaziato liberamente tra opere sacre e profane, a seconda di ciò che gli veniva richiesto dai committenti. Uno dei lavori più prestigiosi che ottenne fu quello di maestro di cappella presso l’Accademia della Morte di Ferrara, una congregazione dal nome e dalle funzioni piuttosto inquietanti, ma molto rinomata ed esigente nella scelta dei musicisti. L’organista che lavora con il mio gruppo, Marina Scaioli, mi ha proposto di deviare un po’ dalla linea “bolognese” che avevamo tenuto fino a quel momento nella scelta degli oratori. Bassani era padovano e si formò a Venezia, quindi il suo stile differisce in maniera abbastanza evidente da quello dei compositori di area emiliana. Va però detto che il Giona gli fu commissionato dal duca di Modena Francesco II d’Este, grande amante dell’oratorio (nel 1689, anno in cui venne tenuto a battesimo il Giona, il duca ne fece eseguire altri 12), un fatto che chiude il cerchio, riportandoci alla regione di nostro interesse».

Un’opera dimenticata da secoli fa spesso pensare ai polverosi scaffali di remote biblioteche, ma – come ci ha detto Baldassari – nel caso del Giona le cose sono andate in maniera molto diversa.

«In effetti, in questo caso siamo stati piuttosto fortunati, perché Elisabetta Pasquini, una bravissima musicologa dell’Università di Bologna, grande appassionata di oratorio barocco, aveva già pubblicato una trascrizione moderna con un’ampia introduzione che ci è stata molto utile; in altri casi prima dell’esecuzione abbiamo dovuto rintracciare le partiture, trascriverle, definire l’organico (una scelta non sempre ovvia), scovare negli archivi notizie sulla prima esecuzione e sugli esecutori, spulciare lettere, cronache, perfino libri contabili. Apprezzo moltissimo e pratico volentieri il lavoro d’archivio e di trascrizione dei manoscritti originali, perché da esso è possibile ricavare moltissime indicazioni per l’esecuzione e la comprensione del testo, ma a volte è bello trovare il lavoro già pronto e fatto bene. In linea generale, gli oratori sono quasi sempre manoscritti, come le opere teatrali, e salvo poche composizioni di cui troviamo esemplari sparsi in giro per il mondo, ne possediamo di solito una sola copia... o nessuna, perché si trattava di lavori legati a un’occasione particolare, che venivano ripetuti solo di rado. Il caso di Modena è particolare, perché gli oratori commissionati da Francesco II d’Este furono diligentemente copiati e ci sono pervenuti quasi tutti in partitura nell’odierna Biblioteca Estense, che è una vera miniera di musica».

Ma veniamo più nello specifico alle caratteristiche di questo oratorio, un’opera di ampio respiro (poco meno di un’ora e mezzo di durata) e ricca di spunti veramente pregevoli.

«La maggior parte degli oratori composti in area emiliana verso la fine del XVII secolo è caratterizzata da una regolare alternanza di arie e recitativi, con qualche inserto arioso. In queste opere l’unico brano d’assieme del gruppo vocale è spesso un madrigale, che trova incongruamente spazio tra i primi numeri. Nel Giona Bassani utilizza più volte duetti e brevi concertati a tre, che servono per esempio a concludere la prima parte formando una vera e propria scena teatrale, nella quale la Speranza e l’Obbedienza si contrappongono al dubbioso Giona. Nella seconda parte ci sono invece tre brevi brani a cinque, uno per esprimere lo spavento dei marinai davanti alla tempesta, il secondo per esplicitare il valore allegorico della stessa e infine un coro conclusivo che sancisce la vittoria divina sull’orgoglio umano. Di regola, tra la prima e la seconda parte si teneva una predica e devo confessare che sono stata tentata di riprendere la prassi, inserendo in concerto uno dei sermoni che ci sono stati tramandati dalle stampe dell’epoca. Mi ha trattenuto il timore dello sgomento che avrei potuto suscitare nel pubblico, ma non è detto che prima o poi non decida di farlo».

Questa scelta costituirebbe indubbiamente un ulteriore – e forse definitivo – passo verso l’approccio più autentico possibile e non è detto che il pubblico non possa finire per trovare suggestiva questa contestualizzazione dell’oratorio nella realtà storica in cui vide la luce.

La vicenda del Giona è liberamente tratta dell’omonimo libro dell’Antico Testamento, con l’aggiunta di alcune figure allegoriche con la funzione di fare risaltare i contenuti morali del testo biblico. Per chiarire meglio lo schema narrativo dell’oratorio di Bassani, ho chiesto a Baldassari in che modo si colloca il personaggio umano di Giona rispetto alle figure della Speranza e dell’Obbedienza.

«Ambrogio Ambrosini, l’autore del libretto, non fa nulla per accattivare le nostre simpatie nei confronti di Giona: i suoi primi interventi ce lo presentano infatti testardo, spaventato, disobbediente ai voleri divini e addirittura un po’ stupido, caratteristiche che nel loro insieme contribuiscono a renderlo profondamente umano e molto diverso dagli altri personaggi. Giona è l’unico le cui arie sono espressione di affetti e sentimenti o reazioni a situazioni, come si può notare per esempio nell’aria del risveglio “Dove sono”, nel corso della quale il personaggio passa dallo stupore sonnolento alla meraviglia e alla disperazione per la tempesta. Le arie degli altri personaggi esprimono invece impersonali riflessioni morali sui fatti. L’Obbedienza e la Speranza hanno tutt’altra costituzione e nei loro testi – anche quelli di esortazione a Giona – si legge una sapienza sovrumana che le rivela emanazioni dirette di Dio, anche se il colore sopranile delle voci e la vivacità dei loro interventi ce le fa identificare come due giovani donne».

La compresenza di personaggi storici e di figure allegoriche può rendere piuttosto difficile l’ascolto all’ascoltatore moderno, abituato a un passo teatrale più serrato di matrice cinematografica. Per apprezzare fino in fondo i contenuti del Giona è quindi necessario individuare chiaramente gli snodi drammatici dell’oratorio.

«Dal punto di vista della funzione morale del testo – continua Baldassari – una delle principali chiavi di volta dell’oratorio di Bassani è sicuramente la scena della tempesta della seconda parte (arie e recitativi del Nocchiero e cori), che enuncia il senso di tutto l’oratorio, secondo il quale disobbedire al volere divino sarebbe la causa di tutti i mali. Anche dal punto di vista drammaturgico e musicale possiamo considerare questa scena una specie di climax a cui segue lo scioglimento di tutta la vicenda. Se però consideriamo unicamente la pregnanza musicale dei vari numeri, meritano di essere citate anche l’aria d’ingresso di Giona, che viene introdotto con passo solenne e cadenzato; la virtuosissima aria del Testo “Cruda Sirte”, scritta evidentemente per mettere in luce le qualità canore del basso, e la breve ma velocissima aria di tempesta del Nocchiero. In ogni caso, a Giona spettano le arie più belle, quella del risveglio e quella della riconquistata serenità che chiude l’oratorio prima del coro finale».

Si tratta – come si può facilmente immaginare – di arie complesse e ricche di espressività, che richiedono agli interpreti non solo una assoluta padronanza dei mezzi tecnici, ma anche una grande capacità di sottolineare gli affetti, elemento chiave del’estetica barocca. Sotto questo aspetto è fondamentale elaborare una chiave interpretativa in grado di valorizzare al massimo grado anche le più piccole sfumature dell’oratorio.

«Pare una banalità, ma nell’interpretazione di questa musica i cantanti italiani presentano il grande vantaggio rispetto agli stranieri di conoscere la lingua. Ribadisco questo concetto apparentemente scontato perché la musica vocale italiana di quest’epoca appoggia inscindibilmente su un’articolazione testuale che la permea e la costruisce. Questo fatto si riflette anche sulle parti strumentali di accompagnamento, che spesso vengono concepite con gli stessi criteri. La prima cosa che ho cercato di ottenere è stata dunque la chiarezza dell’articolazione testuale e musicale, dalla quale derivano l’espressione, l’agogica e – in un secondo momento – la capacità di costruire correttamente le variazioni e gli abbellimenti. Su questi ultimi ho cercato di lavorare in sintonia con i cantanti, proponendo soluzioni stilisticamente adeguate ma seguendo i loro suggerimenti, perché ogni voce ha le sue caratteristiche e la sua personalità e il risultato migliore e più esaltante si ottiene quando ognuno è lasciato libero di esprimerle».

Il riferimento fatto dalla direttrice bolognese alle sezioni strumentali mi ha fatto pensare alle sinfonie che introducono in maniera molto efficace le due parti dell’oratorio, un fatto non frequentissimo nelle opere sacre di quest’epoca.

«In realtà, questo non è proprio vero. Infatti, se parliamo di musica legata alla liturgia o di mottetti posso essere d’accordo con lei, ma gli oratori della scuola emiliana che conosco e soprattutto quelli scarlattiani che sto esaminando in questi giorni sono preceduti da sinfonie bi- o tripartite, con adagi iniziali molto brevi che probabilmente lasciavano spazio a improvvisazioni in stile corelliano del primo violino. Le sinfonie del tardo Seicento riflettono tutte una koiné stilistica riconducibile a quella della scuola strumentale emiliana di Maurizio Cazzati, Giovanni Battista Bononcini, Domenico Gabrielli e – ovviamente – il già citato Corelli. Ai primi del Settecento l’articolazione strumentale divenne invece molto più complessa».

Questo autori ci riportano a quella scuola bolognese a cui Baldassari ha dedicato gran parte della sua discografia, edita dalla Tactus.

«La Tactus ha il grande pregio di accogliere con entusiasmo i progetti di ricerca e di riscoperta del patrimonio musicale italiano, indipendentemente dal fatto che si tratti di autori “vendibili” come Vivaldi o Rossini o di compositori di nicchia. Io e l’Ensemble Les Nations abbiamo esplorato a fondo il repertorio oratoriale fiorito in Emilia e in Romagna, e in particolare le composizioni scritte per la corte estense di Francesco II. Di solito gli argomenti sono tratti dall’Antico Testamento, ma non mancano storie di santi o vicende relative alla Sacra Famiglia. Particolarmente interessante è un ciclo completo delle storie di Mosè, alla cui figura di guida politica e spirituale possiamo immaginare volesse ispirarsi Francesco. In molti oratori manca la componente puramente narrativa, mentre il testo si concentra sui dilemmi morali e psicologici dei protagonisti, ma non sono esclusi colpi di scena e avvenimenti catastrofici. In un altro oratorio dalla trama oserei dire inesistente, Il transito di San Gioseppe, Giovani Paolo Colonna è riuscito a dipingere il personaggio di Lucifero con una tale vivacità e vigore musicale, da rendere possibile lo sviluppo drammaturgico senza bisogno di colpi di scena o azioni drammatiche».

Un genere come quello dell’oratorio non può essere affrontato in maniera superficiale, ma richiede l’impiego di una formazione non solo dotata sotto l’aspetto tecnico ed espressivo, ma anche affiatata sotto il profilo stilistico, caratteristiche che può sicuramente vantarsi di possedere l’ensemble di strumenti originali Les Nations, come ci conferma la sua direttrice.


«Credo che sia del tutto normale costruire i propri progetti musicali con un gruppo di musicisti che si apprezza dal punto di vista artistico e con il quale c’è anche una sintonia personale. Con queste premesse, in questi anni si è formato un nucleo di cantanti e di strumentisti che credono in questo progetto, con i quali abbiamo approfondito lo stile e l’interpretazione e lavorato sugli abbellimenti e sulla caratterizzazione dei personaggi con entusiasmo e curiosità, creando con il tempo una bella comprensione reciproca. In un recente concerto all’estero nel quale abbiamo presentato una silloge di arie con il soprano Laura Antonaz, ospite fissa da anni delle mie registrazioni, il pubblico è rimasto stupito per la totale sintonia che ci legava».

Come si vede, stiamo parlando di un gruppo che sta portando avanti da anni uno studio sistematico su una nicchia repertoriale frequentata oggi da un numero molto ristretto di interpreti e da ascoltatori dai gusti estremamente raffinati. Ma – tornando alla questione che ho posto all’inizio – secondo Maria Luisa Baldassari come è possibile che l’oratorio stenti a conquistare il posto che si merita nelle sale da concerto e nei cataloghi discografici?

«Effettivamente, l’oratorio fatica a trovare una precisa collocazione. Non si tratta di un’opera, non richiede una messinscena e in molti casi la trama è quasi inesistente, per cui fa fatica a trovare spazio nei teatri. D’altra parte, questo genere ha organici troppo grandi per i festival di musica da camera e troppo piccoli per quelli sinfonico-corali; in più è uno spettacolo che non si può definire né sacro né profano. In altre parole, nel nostro spazio spettacolare, fisico e psicologico manca un momento adatto alla sua rappresentazione. A questo bisogna ancora aggiungere il fatto che gli oratori italiani che potrebbero competere per livello e organico con le produzioni händeliane e le passioni bachiane non sono stati mai studiati e riproposti in maniera organica. In Italia esiste un Istituto Vivaldi (per la verità, più interessato alla musica strumentale che a quella vocale), ma non ce n’è uno dedicato ad Alessandro Scarlatti, la cui opera è stata finora trascritta solo in minima parte. Nel corso degli ultimi 20 anni si è tentato di riscoprire gli oratori di Alessandro Stradella, ma senza purtroppo riuscire ad inserirli nel repertorio più battuto. Il mio progetto sull’oratorio ha avuto origine proprio dallo stupore per questa enorme lacuna che condanna al silenzio pagine e pagine di musica bellissima».

Questo discorso fa pensare che Baldassari e il suo ensemble abbiano progetti molto ambiziosi per il prossimo futuro. Ce ne potrà svelare qualcuno?

«Sto seriamente prendendo in considerazione gli oratori di Alessandro Scarlatti, e in particolare quelli di argomento mariano. Conosco abbastanza questo autore per aver eseguito diverse sue cantate e aver trascritto un Salve Regina e il drammatico Stabat Mater, modello di quello pergolesiano. Scarlatti utilizza nei suoi oratori uno stile estremamente variegato, che spazia da una semplicità di organico e di scrittura che rimanda agli oratori emiliani a un gigantismo orchestrale, con l’inserimento di trombe e oboi sullo sfondo di un vasto gruppo di archi, alla ricerca di colori strumentali di cui sappiamo ancora molto poco. Gli oratori di Scarlatti furono eseguiti più volte e di alcuni ci sono pervenute parecchie copie sparse nelle biblioteche di tutto il mondo, alle quali si aggiungono diverse versioni alternative e rifacimenti».

Questi i progetti in corso di elaborazione, ma la direttrice bolognese ce l’ha un sogno impossibile?

«Su questo non ho dubbi: preparare un enorme oratorio di Scarlatti con trombe, timpani, oboi, solisti e concerto grosso da eseguire in una bella sala barocca!».

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Articolo pubblicato il 23/01/2018