L’agonia dell’Embraco, ex Aspera, ex eccellenza italiana

La delocalizzazione che impoverisce l’Italia. La Slovacchia conviene.

La vicenda dell’Embraco di Riva di Chieri è un sintomatico esempio di come la politica sia complice e partecipe dell’agonia industriale italiana che, alla fine degli anni 70 era la sccomoda, quarta potenza manifatturiera mondiale. Le origini sono remote e legate a interessi egemonici di altre nazioni industriali, un argomento che verrà trattato più approfonditamente in una prossima stesura.

L’Embraco è un’azienda metalmeccanica nata col nome di Aspera negli anni 70, specializzata nella produzione di compressori per frigoriferi e climatizzatori, che faceva parte del gruppo Fiat, quando quest’ultimo costruiva anche frigoriferi su licenza americana.

Nel 1985 è stata venduta alla multinazionale Whirlpool che ne ha potenziato la produzione. Sul finire degli anni 90, l’azienda contava 2500 occupati. Dopo un riassetto aziendale deciso dalla nuova gestione brasiliana all’inizio del terzo millennio, una prima linea di produzione è stata delocalizzata in un nuovo stabilimento a Spisska Nova Ves, in Slovacchia, dando inizio a un progressivo sganciamento dalla se de di Riva di Chieri e relativa diminuzione del personale, con i primi conflitti sindacali, in verità poco incisivi, rispetto al rumore attuale.

Nel 2004, l’azienda minacciava la chiusura, dando origine a forti resistenze delle maestranze, blocchi stradali e coinvolgimento del governo. I vertici dell'Embraco, dopo aver raggiunto accordi con lo Stato e fondi per la ristrutturazione, insieme a cassa integrazione, prepensionamenti e incentivi all’esodo, rinunciavavano alla chiusura, ma la filiale slovacca, beneficiando dell’esperienza produttiva dell’azienda italiana, veniva privilegiata, spostando ad est anche il settore amministrativo.


L’Embraco, ex Aspera, ex fiore all’occhiello della manifattura meccanica chierese si è trascinata così fino ai nostri giorni, vedendo l’organico ridotto a poco più di 500 lavoratori e un’unica linea di produzione, quella che si immagina partire anch’essa verso la Slovacchia.

Questa a grosse linee la vicenda di un’eccellenza italiana sacrificata come tante da un complesso gioco di interessi che non fa prigionieri. È una storia articolata che richiede molto spazio. Quello che invece è facile da condensare in una triste constatazione è proprio il gran risalto che viene dato adesso dai media ad un tardivo intervento del governo e del ministro Calenda, quando l’azienda già ha deciso la chiusura, dopo essersi progressivamente defilata tra sfruttamento, promesse e illusioni. In questo momento di clima elettorale e autoproclami di ripresa economica, stride che la storia dell’azienda passi per i canali dell’informazione di massa in maniera così incompleta.

Il presidente Gentiloni, il mese scorso, dopo aver ricevuto il presidente della regione Chiamparino, i sindaci di Riva di Chieri e di Chieri, e rappresentanti sindacali, per mezz’oretta in una stanza dell’aeroporto di Caselle, dove era di passaggio, aveva promesso una riorganizzazione dell’area, con l’ipotetico inserimento di altre fatue attività produttive. Un bel discorso al Tg.

Oggi, 16 febbraio 2018, la Guardia di Finanza ha compiuto un blitz, sequestrando documentazione negli uffici. La speranza sarebbe di risalire ai finanziamenti statali, ma è lecito sospettare che, essendo trasferita in Slovacchia anche la sezione amministrativa, ogni documentazione non potrà essere completa. In attesa dei prossimi sviluppi, nonostante gli appelli dell’arcivescovo Cesare Nosiglia e le assemblee indette dai rappresentanti della Fiom e della Uilm, l’unica cosa che pare essere drammaticamente certa è che l’Italia, e nella fattispecie il Piemonte, hanno perso un’altra fabbrica e 500 lavoratori, molto probabilmente, dovranno trovarsi un'altra, dignitosa fonte di reddito.


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Articolo pubblicato il 17/02/2018