France Champion du Monde 2018: generazione di fenomeni

Didier Deschamps entra nella storia: dopo Màrio Zagallo (1958-1962 e 1970) e dopo il “Kaiser” Franz Beckenbauer (1974 e 1990), è il terzo ad aggiudicarsi il Campionato Mondiale di calcio, sia come giocatore, di più, come capitano, che come commissario tecnico.

Il “Napoleone” di Bayonne ha portato alla vittoria una squadra “multicolore”, mi piace definirla così, al di là di qualunque implicazione politica e geografica, data come outsider, di lusso fin che si vuole, ma sempre outsider, dalla maggior parte degli esperti, o presunti tali.

Una squadra giovane, tecnica, esuberante, grintosa, illuminata dal talento puro di due attaccanti come Mbappe e Griezmann, il primo giocasse in Italia sicuramente siederebbe regolarmente in panchina o starebbe per anni a “farsi le ossa” in serie minori, e da un centrocampo tutto muscoli e tecnica, Pogba e Kanté: nulla di nuovo sotto il sole da un punto di vista tecnico-tattico, caratteristica di tutto il mondiale, tra l’altro, ma una squadra che è stata “Squadra” per tutta la durata del torneo, soprattutto costante nei risultati, sei partite vinte su sette, e tutte entro i tempi regolamentari.

Costanza che è mancata alla Croazia, l’altra finalista: la squadra di Zlatko Dalic è arrivata stremata alla finalissima, avendo giocato praticamente una partita in più della Francia (tre volte ai supplementari) e con un giorno in meno di riposo.

Onore comunque agli sconfitti.

Come dicevo poco sopra, almeno dal punto di vista del gioco, non è stato “il Mondiale più bello di sempre”: spesse volte ho visto ripristinato il caro, vecchio 5-3-2 di sonettiana memoria, e il caro, vecchio “primo non prenderle”, che all’atto pratico diventa un inno alla difesa e al contropiede.

Ne sanno qualcosa i giapponesi, eliminati proprio da un contropiede all’ultimo minuto, all’ultimo respiro, da parte del Belgio, la squadra probabilmente più forte, a livello di individualità, che si è fermato, in semifinale, proprio davanti alla Francia, futura vincitrice.

Per il resto è stato un Mondiale all’insegna delle eliminazioni eccellenti, ma non del tutto sorprendenti: Argentina innanzitutto, squadra senza un senso, composta da giocatori sopravvalutati e schiava di un Leo Messi che in nazionale non riesce mai ad esprimersi al meglio, Germania, campione uscente, squadra spocchiosa e vecchia, figlia di un mancato rinnovo generazionale, Brasile, squadra mediocre, succube di Neymar Jr, cascatore e simulatore, a volte davvero indisponente, Spagna, gestita malissimo la questione del Commissario Tecnico, armata Brancaleone e nulla più, e Portogallo, a dimostrazione che un uomo solo non fa squadra vincente, a meno che si chiami Diego Armando Maradona.

Piacevoli sorprese le sudamericane Mexico, Uruguay (forse con Cavani in campo contro la Francia, poteva andare diversamente) e Colombia; buon torneo per l’inghilterra, totalmente autarchica, indecente nel non-gioco la Svezia, squadra di casa e nulla più la Russia.

Ferme ai gironi eliminatori tutte le squadre africane, forse la delusione più cocente di questo Mondiale.

Da un punto di vista strettamente televisivo, la kermesse mondiale è stata un successo: grande dispiegamento da parte di Mediaset di uomini e mezzi tecnologici, riprese perfette, partite analizzate nei minimi dettagli, una app per tablet e smartphone che ha funzionato a meraviglia.

Nota stonata i telecronisti, anzi un telecronista (inutile e superfluo fare il nome), come sempre troppo enfatico nel commentare le gesta dei giocatori bianconeri in campo, e commentatori tecnici a volte un tantino naif, in stile barbera e bolliti misti (ex capitano granata).

Nota stonatissima, le prime puntate di "Balalaika", il dopopartita di Canale5: una versione becera, a volte anche maleducata, di “Mai dire Goal”, programma riveduto e corretto in corso d’opera, complice anche e soprattutto, l’intervista a Maxi Lopez, che col Mondiale c’entrava come i cavoli a merenda.

Personalmente, di questo Mondiale 2018, ricorderò senz’altro, parliamo per una volta di look, il panciotto, portato con stile very british da Gareth Southgate, Commissario Tecnico dell’Inghilterra, i tatuaggi, fighissimi mi permetto di dire, di Jorge Sampaoli, meritatamente bistrattato CT argentino, sogno di ogni harleysta e i capelli rasta di Aliou Cissé, allenatore del Senegal, da fare invidia a Lenny Kravitz.

Ricorderò anche e soprattutto, il “Maestro” Óscar Washington Tabárez, CT dell’Uruguay: la sua esultanza, gli occhi della tigre, nonostante la malattia, la Sindrome di Guillain Barré, sono stati un esempio, commovente, di amore per lo sport.

Chiudo con una domanda, in stile Federico Buffa: e noi?

Noi probabilmente, anche senza considerare la zavorra tecnico-tattica del vate genovese, avremmo superato a stento la fase eliminatoria, per poi finire il cammino ai sedicesimi o al massimo agli ottavi di finale.

Ora spetta Roberto Mancini ricostruire squadra e ambiente, in previsione dell’Europeo 2020 ed eventualmente del prossimo Mondiale: compito difficile, siamo onesti, ma non impossibile.

La filosofia di Didier Deschamps può, deve, essere di esempio.

Ci si rivede in Qatar, nel 2022: si giocherà in Inverno (sospensione obbligatoria dei vari campionati nazionali), probabilmente con 48 squadre ammesse.

Ne vedremo delle belle.

 

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Articolo pubblicato il 16/07/2018