La notte delle leggende: Brian Auger's Oblivion Express feat. Alex Ligertwood Live at LE ROI

La notte delle leggende, l’ennesima.

Toni Campa e Luciana De Biase, dopo aver presentato nel recente passato The Animals e The Pretty Things, hanno chiuso un ipotetico triangolo musicale, proponendo al Le Roi (Via Stradella 8, Torino), un altro mito della musica, anche se “mito” è assai restrittivo: Brian Auger e la sua band The Oblivion Express.

Brian Auger, ovvero colui che ha introdotto l’organo Hammond nella musica pop, punto di riferimento per intere generazioni di musicisti sparsi in tutto il mondo, padre putativo del jazz-rock, trasformatosi in seguito in “fusion”.

Brian Auger, una persona davvero speciale, umile, disponibile e simpatica, come solo i grandi, i grandissimi, sanno essere; la persona che, come vuole la leggenda, avrebbe detto “no” a Jimi Hendrix. “Non è proprio così”, mi confida Brian, con un largo sorriso, poco prima del concerto, “in realtà io ho detto di no al manager di Jimi. Lui era una persona…(mi dice una parola in inglese che proprio non posso tradurre)…e non avevo nessuna intenzione di fare qualcosa con lui. Mi proposero, degli amici, di far suonare con me un chitarrista appena arrivato dagli Stati Uniti, ma io avevo già un bravo chitarrista nella mia band, però, per cortesia, accettai di fargli fare una jam. Qualche sera dopo, in un club di Londra, presenti grandi chitarristi come Jeff Beck, Eric Clapton, Alvin Lee, mi presentarono Jimi, salimmo sul palco e cominciammo ad improvvisare: un genio, un genio assoluto. Un paio d’anni dopo, nel 1970, lo incontrai a New York, e mi propose di suonare nel disco a cui stava lavorando (“Band of Gypsys”, ndr), ma io rifiutai, solo perché avevo preso altri impegni e non potevo dedicarmi a quel progetto. Un peccato. Un grandissimo. Questa è la vera storia”.

La notte delle leggende, dicevo poc’anzi. Si, perché sul palco progettato dall’Architetto Mollino, è salita un’altra leggenda della musica: Alex Ligertwood, che molti ricorderanno come lead-vocal dei Santana. Alex, altra persona estremamaente disponibile, scozzese doc, mi spiega, fumando una sigaretta davanti al portoncino del Le Roi, come sia finito sul palco insieme all’icona messicana della chitarra: “E’ vero, Glasgow è molto lontana da Mexico City, ma io ho vissuto per parecchio tempo a San Francisco, in California, dove frequentavo un certo giro musicale. A New Jork avevo degli amici comuni di Carlos, Narada Michael Walden, David Sancious, John Mc Laughlin, e mi sono trovato sul palco insieme a Santana. Di quel periodo ho solo ricordi bellissimi: abbiamo girato insieme il mondo, più volte. E’ stato fantastico”.

Lo spettacolo è stato qualcosa di magico.

Due ore di musica che definire “fusion” è estremamente restrittivo: un crossover di generi, un misto di agilità e potenza, per dirla in termini sportivi, di classe, eleganza e tecnica: una fusion del nuovo millennio, riscritta da chi ha reinventato la musica pop, intesa nel suo significato più ampio, da “popping” (improvvisare). Quasi un deja-vu, per chi ha vissuto una certa stagione musicale: suoni puliti, senza computers, sequencers e ammennicoli elettronici. Un concerto caratterizzato da lunghe digressioni strumentali, che hanno infiammato il numerosissimo pubblico presente “in the house”, compresi parecchi musicisti ed addetti ai lavori, che ha tributato alla band, la meritatissima standing ovation a fine spettacolo.

Bellissima “Night in Tunisia”, la opening-song, da brividi “Sundown” e travolgente “Flesh”, cover di un brano dei Blood Sweet & Tears. Un compendio di storia della musica.

La band.

Andreas Geck: suona il basso a cinque corde, con tecnica sopraffina, e come i grandi interpreti dello strumento, Jaco  Pastorius, Alphonso Johnson, Stanley Clarke, riesce a trasformarlo in qualcosa che va al di là della semplice macchina ritmica. I muri del Le Roi hanno rischiato il crollo. Superbo.

Carl K Auger: la batteria intesa come fantasia al servizio del ritmo. Anche lui, come altri grandi interpreti dell strumento, Walfredo Reyes Jr, Josè “Chepito” Areas, “Narada” Michael Walden, ricama cadenze e battute tutt’altro che semplici, con una facilità quasi disarmante. Il pavimento ha rischiato più volte di esplodere. Una gioia per le orecchie.

Alex Ligertwood: una voce epica, che mi rimanda immediatamente a quel concerto al Parco della Pellerina del giugno 1992. Una voce inimitabile, dalla timbrica unica, che ha caratterizzato un’intera epoea musicale da The Jeff Beck Group alla Average White Band. Icona.

Brian Auger, insostituibile tastierista nel “Black Cat World Tour” (“Zucchero? Per me un fratello” mi  confida): dire “maestro” dello strumento è davvero restrittivo. Un tutt’uno con la tastiera, dalla quale riesce ad estrarre suoni e feeling impensabili. Inimitabile ed insostituibile. La musica contemporanea, che altro non è se non l’evoluzione di quella che lui stesso ha inventato, ha ancora bisogno del suo organo hammond. Un esempio da seguire per le nuove generazioni di musicisti.

Toni Campa e Luciana De Biase: senza di loro, senza il loro amore per la musica, tutto questo non sarebbe mai successo.

La notte delle leggende. Credo non ci sia altro da dire.

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Articolo pubblicato il 01/11/2018