Violinismo d’antan

L’etichetta tedesca SWR Classic presenta un disco dedicato a Vása Prihoda, uno dei solisti più interessanti e talentuosi della prima metà del XIX secolo.

«Il più grande violinista del XX secolo», «Una tecnica impeccabile, di gran lunga superiore a quella di tutti gli altri virtuosi in circolazione», «Il violinista più carismatico che mi sia mai capitato di ascoltare».

 

A chi si riferiscono questi giudizi entusiastici, espressi da alcuni dei più eminenti critici musicali verso la fine degli anni Trenta? A Jascha Heifetz? Yehudi Menuhin? David Oistrakh? In realtà, il solista in questione è Vása Príhoda, uno dei numerosi enfant prodige del violino che diedero prova del loro sbalorditivo talento nei primi anni del XX secolo, oggi quasi completamente scomparso per via di una serie di sfortunate circostanze.

 

Nato nel 1900 nella città boema di Vodnany, Príhoda esordì a Praga appena tredicenne, ma quello che si profilava come l’inizio di una luminosissima carriera venne bruscamente stoppato dallo scoppio della prima guerra mondiale. Una volta terminato il conflitto, il diciannovenne si recò in tournée in Italia, dove venne però accolto con freddezza, anche per il fatto di essere originario di un paese che fino a poco prima apparteneva all’odiatissimo impero austro-ungarico.

 

Rimasto senza denaro in un paese straniero, Príhoda fu costretto ad accettare una scrittura in un caffè di Milano, per quella che sembrava essere la fine definitiva dei tutti i suoi sogni. Il destino aveva però in serbo ben altro per lui, visto che mise sulla sua strada nientemeno che Arturo Toscanini che, dopo averlo ascoltato, lo spronò a riprendere la tournée, questa volta con un grande successo, che gli schiuse le porte di tutte le sale da concerto più importanti del mondo. Questa fu la fase più felice della sua carriera, nel corso della quale ottenne la fama e girò addirittura due film, che contribuirono a farlo diventare un divo non solo tra gli appassionati della grande musica sinfonica.

 

Per sua sfortuna, durante la seconda guerra mondiale rimase in Austria e si esibì nei paesi occupati dalla Germania nazista, un fatto che gli costò un’accusa di collaborazionismo e il bando dalla maggior parte dei paesi europei. Ebbe così inizio un periodo oscuro e pieno di difficoltà, che lo vide passare da Rapallo, in Turchia, per fare infine ritorno in patria, dove conobbe ancora un buon successo prima di morire ancora giovane nel 1960.

 

Questa lunga prolusione serve per inquadrare questo artista oggi quasi sconosciuto, che in questo disco dà prova delle sue grandissime doti tecniche, in tre celebri brani registrati in Germania all’inizio degli anni Cinquanta. Sotto l’aspetto interpretativo, P?íhoda dà il meglio di sé nella Sonata e nel Concerto di Dvorák, che esegue con un approccio scopertamente romantico, privo di affettazioni espressive e con una commovente adesione alle radici del suo paese, di cui sottolinea a più riprese gli elementi tradizionali e popolareschi, mantenendo però sempre i toni raffinati che costituiscono una delle principali cifre stilistiche di queste pagine.

 

In particolare, la Sonatina op. 100 – uno dei suoi principali cavalli di battaglia, visto che di quest’opera realizzò ben tre incisioni, l’ultima nel 1956 per il suo ritorno a Praga – si fa apprezzare soprattutto per il tono dolcemente trasognato del Larghetto, nel quale Príhoda distilla pura poesia, anche grazie al sensibile accompagnamento pianistico di Maria Bergmann.

 

Ancora migliore – se possibile – è l’Adagio ma non troppo del Concerto op. 53, nel quale il solista è accompagnato egregiamente dalla Radio-Sinfonieorchester Stuttgart des SWR diretta da Hans Müller-Kray, al quale fa seguito un Finale brillantissimo, ma leggermente meno personale sotto l’aspetto interpretativo. Nel Concerto K.216 di Mozart Príhoda dimostra invece di essere figlio dei suoi tempi – non certo una colpa, per carità! – con una lettura che si pone in linea con quelle dei grandi violinisti suoi contemporanei come Arthur Grumiaux, tendendo a porre le opere del sommo Salisburghese in un ambito romantico che non gli appartiene.

 

Non si tratta – si badi bene – di un giudizio basato sul raffronto con gli attuali campioni dell’approccio storicamente informato, che utilizzano strumenti originali e adottano uno stile in linea con la prassi esecutiva settecentesca, ma di una valutazione di natura estetica, in virtù della quale la concezione di Príhoda appare ridondante e sovradimensionata rispetto alle terse linee classiche di questo concerto e all’autentica estetica mozartiana che si è affermata nel corso degli ultimi decenni.

 

Questo fatto appare evidente non solo nella scelta di utilizzare un vibrato eccessivo (che nelle opere di Dvorák può anche avere la sua logica, mentre in Mozart appare alla lunga piuttosto fastidioso), ma soprattutto nelle tre cadenze scritte da lui stesso, chiaramente fuori stile e intese soprattutto a mettere in luce la bravura del solista. Se dal lato del puro piacere dell’ascolto questo disco solleva diverse perplessità, sotto l’aspetto storico si tratta di una preziosa testimonianza dell’arte di un violinista che – soprattutto nel suo repertorio d’elezione – merita senz’altro di essere riscoperto.

 

 

ANTONÍN DVORÁK / WOLFGANG AMADEUS MOZART

Sonatina in do maggiore per violino e pianoforte op. 100, Concerto in la minore per violino e orchestra op. 53 / Concerto n. 3 in sol maggiore per violino e orchestra K.216

Vása Príhoda, violino

Radio-Sinfonieorchester Stuttgart des SWR, Hans Müller-Kray, direttore

CD. SWR Classic. SWR 19072CD. 76:18.

Registrazione mono effettuata il 16 marzo 1951 (Sonatina), il 12 marzo 1953 (Mozart) e il 9 marzo 1956 (Concerto).

 

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Articolo pubblicato il 26/06/2019