Omaggio a Vincent Lambert e l’importanza del testamento biologico

L’infermiere francese, tetraplegico e in stato vegetativo, ha cessato di vivere l’11 luglio 2019. Troppe voci sul caso?

Sono tetraplegico da 32 anni, una condizione dalle numerose tipologie, ma che comunque definisce uno stato di non autosufficienza anche nei casi meno gravi, poiché interessa i quattro arti, e gran parte della muscolatura innervata al di sotto della lesione relativa al tratto cervicale del midollo spinale. È dura, ma nel livello del mio caso, ho imparato a cavarmela in lo stesso in più situazioni.

La tetraplegia insegna a vivere in un insieme dove le possibilità di relazione e di appartenenza sono legate a doppio filo con le proprie capacità residue, alcuni ausilii tecnici, e il dipendere da altre persone, che è di fondamentale importanza per la sopravvivenza. Ogni tanto capita di lasciarsi sfuggire un: “non ce la faccio più”, rimpiangendo quando ero "afflitto" da “normalità”, e qualche sinistro pensiero accarezza la mente.

La normalità: magnifica interazione tra anima, cervello e fisico, che fa dell’essere umano una macchina perfetta, in grado di vivere in modo magico e gratificante una buona parte del tempo biologico a lei destinato. In alcuni casi di vite scaraventate dal destino all’estremo lembo di una immobilità allo stato vegetativo, qualsiasi equilibrio salta.

Quando la gravità della menomazione si impadronisce di ogni speranza, ogni mobilità, ogni gestualità, obbligando a un’esistenza completamente al di fuori di ogni appartenenza, allora il concetto di vita va inteso come un tunnel senza uscita.

Sono situazioni estreme, occorre parlarne in punta dei piedi. Molto difficile è l’esprimere qualsiasi giudizio già per chi come me conosce bene l’argomento, assolutamente impensabile da chiunque ne tratti solo accampando il proprio parere, una ideologia, o peggio, per sentito dire.

Ultimamente, a qualche essere umano che non ce la fa più, viene concesso di sposare la via della dolce morte. Sono casi strazianti che scombussolano l’opinione pubblica, ultimo quello di Vincent Lambert, il giovane infermiere francese vittima di un trauma cerebrale, da anni in stato vegetativo che, nell’immensità del suo dramma è stato al centro di una faida familiare: da una parte moglie, fratelli e medici curanti, contrari all’accanimento terapeutico, dall’altra i genitori cattolici integralisti e altri familiari, contrari all’interruzione delle cure. In mezzo: corsi e ricorsi dell’apparato giuridico amministrativo francese, a cui è spettata l’ultima parola. Anche il Papa si è più volte espresso con contrarietà; non poteva fare altrimenti.

Questa volta sarei rimasto fuori dalla storia di Vincent Lambert e la sua commovente, tristissima vicenda. Già in altre occasioni mi sono occupato di certi casi estremi che hanno interessato alcune scelte di “fine vita”, ogni volta mi sono sentito comunque inadeguato, sebbene più volte sfiorato dall’idea ed esperto in parte della materia.

Non avrei voluto parlare del ragazzo francese e della sua spina staccata, già in tanti ne han fatto frettolosa cronaca sui giornali e in tv. Ma mi sento trascinato a farlo dalle tante interferenze captate qua e là, sfociate anche sulla rete & su Facebook. Opinioni talvolta troppo rumorose, troppo convinte su ciò che è bene e ciò che è male, su ciò che è pietoso gesto di liberazione o peccato mortale.

Il cardinale Robert Sarah definisce omicidio la morte di Vincent Lambert, vittima della follia degli uomini e del nostro tempo. La madre lo avrebbe voluto ancora vivo accanto a sé, gli opinionisti sono divisi in due, ma il giovane infermiere, potendo decidere, cosa avrebbe desiderato?

Vivere in condizioni limite è spesso doverlo fare già a braccetto della morte, e l’idea di non esistere più si fa strada sovente. Se ne parla tra di noi che ancora riusciamo a vivere in modo interessante, ma sempre e comunque sul bordo del vuoto. Solo chi è afflitto da certe patologie convive con tentazioni che scaturiscono da un umano disagio nel dover vivere per poi arrivare un giorno a morire comunque, ma dopo aver tracciato un percorso di vita molto severo per il livello di frustrazioni che solo certe sofferenze sanno applicare all’andar del tempo.

Ecco perché non mi dilungo nei chi, come, dove e quando, non giudico né la fine del giovane Lambert, né coloro che hanno trasformato un percorso sconosciuto in un argomento comunque di dibattito, anche se di fede o di ipotetica ragione.

Certe morti meritano più rispetto di altre. Parlarne si può e si deve, ma con molta umiltà e convivenza con la propria ignoranza. Ogni vita è una storia, alcune sono più dure di altre, tutte si concludono con un “clik” che spegne la luce, prima o poi.

Molti fortunati onorano il loro percorso di prevista esistenza, alcuni ne anticipano la fine anche per motivi in apparenza futili, mettendo in atto un diabolico progetto spesso avventato.

Il limite del non voler vivere più esiste, a volte si manifesta, ma è molto distante dal bramoso desiderio di voler vivere ancora un giorno di più. Lo stato di immobilità assente colloca il soggetto in un suo mondo a parte. Mi piacerebbe sentirne parlare con una visione più silenziosa e più ampia, mentre il Testamento biologico dovrebbe diventare un documento obbligatorio in una società multireligiosa, laica e civile, lasciando decidere al singolo il punto estremo del proprio limite di sopravvivenza e l’ultima parola su una terminale gestione del proprio tempo, del proprio destino.

L'11 luglio, l'interruzione delle cure ha fatto effetto e Vincent Lambert ha lasciato in Terra il suo ultimo soffio vitale. Se dobbiamo credere in un aldilà che ci accoglie benevolo, e che per un attimo mi è stato dato di sfiorare e percepire 32 anni fa, mi vien da sussurrare che il giovane infermiere, in questo momento stia vivendo di nuovo e veramente, sotto forma di spirito o chissà, ma in ogni caso, certamente meglio che accartocciato in un letto d’ospedale, esiliato e magari tristemente consapevole d'ogni sofferenza & privazione.

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Articolo pubblicato il 16/07/2019