Gli allievi e le allieve dei Corsi di Musica Antica del Festival dei Saraceni si confrontano con il capolavoro di Henry Purcell.
Come tappa conclusiva della cinquantaduesima edizione dei Corsi di Musica Antica incardinata nel Festival dei Saraceni, sabato 20 luglio alle ore 21 nella Chiesa di San Biagio di Pamparato verrà eseguito uno dei massimi capolavori del Barocco europeo, vale a dire King Arthur di Henry Purcell, il compositore di maggior talento che l’Inghilterra abbia mai avuto, il cui genio in terra albionica venne avvicinato solo due secoli più tardi dalla luminosissima stella di Benjamin Britten.
Si tratta quindi di un’occasione imperdibile per ascoltare musica di straordinaria bellezza che – per ragioni francamente difficili da capire – viene eseguita troppo di rado alle nostre latitudini.
Negli anni immediatamente successivi alla Restaurazione inglese, che videro il ritorno non solo della monarchia ma anche della musica dopo gli anni del dominio puritano di Oliver Cromwell, si assistette alla repentina affermazione della semi-opera, un genere proprio della Gran Bretagna, che ebbe una parabola storica di appena un quarantennio, prima di cedere il passo alle grandi opere serie in italiano portate al successo tra gli altri da Georg Friedrich Händel.
Sotto l’aspetto formale, le semi-opere sono caratterizzate da un insieme di lunghi brani recitati, songs e brani d’insieme cantati e scene di danza.
L’elemento predominante è quello teatrale, come si può facilmente immaginare dall’immutata fortuna di cui i drammi e le commedie di Shakespeare continuavano a godere ancora oltre mezzo secolo dopo la morte del loro autore e proprio intorno alla figura del Bardo ruota la prima semi-opera di cui si sia pervenuta memoria, ossia il Macbeth che venne messo in scena nel 1673 con l’adattamento teatrale di William Davenant e la musica di Matthew Locke, uno dei compositori di punta della raffinata corte di Carlo II. In ogni caso, l’autore di semi-opere più famoso è senza dubbio Henry Purcell, che tra il 1690 e il 1695, anno della sua precocissima morte avvenuta a soli 36 anni di età, compose cinque capolavori, tra i quali spiccano The Fairy Queen e King Arthur, che continuano a venire messi in scena molto spesso anche ai giorni nostri.
Il King Arthur ebbe una genesi estremamente tormentata. Il celebre drammaturgo John Dryden iniziò a scrivere un’opera con questo titolo nel 1684, per celebrare i 25 anni di regno di Carlo II. Purtroppo, questo dramma strutturato (probabilmente) in tre atti e un prologo allegorico non è giunto fino ai giorni nostri ma, per qualche ragione che non sapremo mai, Dryden decise di non farlo mettere in musica, preferendo utilizzare il suo prologo per una nuova opera, Albion and Albanius, che sarebbe stata intonata dal compositore di origine catalana Louis Grabu.
Mentre tutto sembrava andare per il meglio, nel febbraio del 1685 – poco prima dei solenni festeggiamenti per il giubileo reale – Carlo II morì, aprendo un periodo molto turbolento che vide succedersi sul trono nel giro di appena tre anni il cattolico Giacomo II e il protestante Guglielmo II di Orange. All’ascesa di Giacomo II Dryden decise di convertirsi al cattolicesimo, una scelta di coscienza, che però ebbe serie conseguenze sul prosieguo della sua carriera, al punto da venire sostituito – all’avvento dell’Orange – nel ruolo di poeta laureato da Thomas Shadwell, un letterato dal talento infinitamente inferiore al suo.
In questo confuso periodo, due mesi dopo la scomparsa del re Dryden e Grabu fecero rappresentare l’Albion and Albanius, riportando un bruciante insuccesso, al punto che il poeta decise di abbandonare il progetto in attesa di tempi più favorevoli. Il momento giusto giunse nel 1691, quando l’impresario Thomas Betterton – incoraggiato dallo straordinario successo ottenuto dalla semi-opera Dioclesian di Purcell – chiese a Dryden di sottoporre l’Albion a una radicale revisione, per trasformarlo nel King Arthur, che avrebbe avuto la musica del compositore inglese più acclamato del momento, quello che molti avevano già cominciato a salutare con il titolo di Orpheus Britannicus.
Dalla collaborazione di due artisti del calibro di Purcell e Dryden non poteva che nascere un grande capolavoro. Pur non potendo contare su una messinscena raffinata e dispendiosa come quella del Dioclesian, King Arthur venne accolto in maniera trionfale, non solo per la straordinaria bellezza dei versi e della musica, ma anche per l’argomento patriottico, che infiammò l’animo degli spettatori come fece in seguito l’Alfred di Thomas Augustine Arne e spinse persino un navigato uomo di teatro come Betterton a pretendere di vestire i panni del protagonista, sebbene veleggiasse ormai verso i 60 anni di età.
Per questa storia di amore, guerra e magia, imperniata sulle figure dei re Arthur e Oswald, entrambi innamorati di Emmeline, figlia del duca di Cornovaglia, con la partecipazione straordinaria di mago Merlino, che alla fine fa sorgere prodigiosamente dal mare le Isole Britanniche, Purcell compose le musiche per sei scene, che si integrano in maniera molto efficace nel tessuto teatrale.
Oltre che per la sua valenza teatrale, King Arthur deve il suo persistente successo alla capillare diffusione di cui godettero molti dei suoi songs, che vennero stampati in numerose raccolte antologiche e raggiunsero il pubblico di tutte le classi sociali.
Tra i brani più felici meritano di essere ricordati la baldanzosa aria con coro dei Bretoni «Come if you dare» del primo atto, l’intermezzo dal carattere delicatamente pastorale del secondo atto, la fenomenale «How happy the lover» del quarto atto, una passacaglia basata su un basso di quattro battute ripetuto ben 59 volte in tutte le forme possibili e immaginabili, la brillantissima aria del basso «Ye blust’ ring brethren of the skies» e l’incantevole «Fairest Isle». Il gioiello più prezioso dell’opera è però il masque del terzo atto, nel quale il mago “cattivo” Osmond evoca davanti agli occhi di Emmeline l’immagine di un gelido mondo invernale, che viene però ben presto cancellata da Cupido, che riscalda i cuori di tutti con il tepore dell’amore.
Con i suoi affetti contrastanti e la meravigliosa bellezza della sua musica, questa scena è considerata da sempre uno dei vertici più alti dell’arte di Purcell.
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Articolo pubblicato il 19/07/2019