Il Natale di Arturo

Un racconto di Maria Rosa Arena

Arturo stringeva le dita sulle cuffie, la musica sparata a tutto volume. Gli sembrava che ogni nota fosse un treno in corsa che gli attraversava il cervello, portando i suoi pezzi in giro da un orecchio all’altro: uno stupido treno merci.

 

“Ho perso le parole, eppure ce le avevo qua un attimo fa...” - gli cantava laconico, Ligabue. Aveva le gambe allungate sulla sedia e la sigaretta infilata in bocca. I fili di fumo gli si infilavano fra i capelli e ne uscivano velocemente, lasciandogli un po’ di grigio sulla testa arruffata. Mentre cercava di battere il tempo con un piede per sentirsi vivo, guardava annoiato dalla finestra. Nevicava. Qualche fiocco – deviato da un leggero vento - finiva sbattendo sui vetri con una furia che lui comprendeva benissimo.

 

Poche ore prima era stato in giro per strada e aveva visto i negozi illuminati. La gente felice. Le luci intermittenti. Quei rossi e blu che assomigliavano ai suoi occhi socchiusi dietro agli occhiali. Si era allungato fino al Balon, passando per Porta Palazzo. Aveva quasi pattinato sul plateatico del mercato, rischiando di finire col sedere su di un’arancia schiacciata. Era rimasto miracolosamente in equilibrio: cosa tutt’altro che facile per lui. Girando fra le bancarelle dei mercatini di Natale, era stato fermato da un vecchio sbucato improvvisamente da dietro un banco. Lo aveva chiamato con un fischio fra i denti e poi gli si era piazzato davanti, fissandolo in faccia con labbra asciutte. Arturo ne era rimasto un po’ sconcertato ma alla fine aveva deciso di concedergli la sua attenzione - incrociando le gambe e le braccia, - in attesa.

 

«Tu hai bisogno di queste!» gli disse il vecchio porgendogli una confezione contenente delle palline dell’albero di Natale. Erano quattro e stranamente trasparenti. Arturo le guardò, pensando che l’uomo gli stesse facendo una battuta su alcune delle sue “mancanze” di cui conosceva benissimo l’esistenza. Stava per ridere ma il vecchio continuò a fissarlo serio negli occhi.

 

«Sono tue, non le puoi lasciare a me» disse spingendogli la scatola verso lo stomaco: «Allora?».

 

Lui prese la confezione e la rigirò: «Cosa me ne faccio? Sono anni che non faccio l’albero» disse allargando gli occhi azzurri sotto i vetri appannati degli occhiali.

 

«Appunto. È ora di sistemare le cose, non credi?» disse il vecchio lasciando intravvedere alcuni denti rotti: «Ti chiedo solo quattro euro, ma valgono molto, molto di più» aggiunse con quello che poteva essere scambiato per un sorriso. Ad Arturo parve - al contrario - solo un’inquietante fessura.  

 

«E va bene» disse poco convinto, tirando fuori cinque euro stropicciati dalla tasca: «tieni pure il resto».

 

Il vecchio afferrò la banconota e gli diede un euro, dicendo: «Non erano questi gli accordi. Quattro palline, quattro euro» disse, e non dette altro modo di proseguire in ulteriori discussioni. Si allontanò velocemente, il cappotto rosso che svolazzava, strisciando sull’asfalto.

 

- Che tipo! Decisamente da brividi! Sicuramente un clochard fuori di testa! - pensò Arturo. - Gli mancavano solo la barba bianca e le renne. Ma se è davvero un clochard - nonché la brutta copia di Babbo Natale - le renne se le sarà già mangiate...-

 

Sorridendo alla scena, si mise la confezione sotto al braccio avviandosi verso casa. Le palline rotolarono all’interno, tintinnando l’una contro l’altra senza rompersi. Quasi quasi in quel momento, lo avrebbe preferito.

 

Perché le aveva comprate, perdio?

 

Quando fu a casa, abbandonò il suo acquisto sul mobile e si mise le cuffie.

 

Il giorno dopo la confezione era ancora lì: pareva in attesa. La luce del giorno le cadeva sopra attraverso la finestra, come quella di una lampada.

 

In ogni caso, che ci faccio con solo quattro palline? Dovrei comprare l’albero, le luci, i festoni… ma che cavolo! - Nel dirlo si era già infilato il giaccone. Si ritrovò addosso la sciarpa e i guanti senza ricordare di esserseli messi.

 

«Sto impazzendo» si disse a voce alta. - Tutto questo è assurdo! -

 

Ricordò a se stesso che ormai era solo un uomo di mezza età, burbero e solitario. Non aveva amici e al lavoro lo evitavano tutti. Persino la sua pagina Facebook era il deserto dei tartari, per buona pace di Buzzati. – Che Dio lo perdonasse anche solo per la citazione! -

 

Arturo si chiese per la prima volta cosa fosse successo per precipitare in quella misantropia: non se lo ricordava. Era avvenuto tutto giorno per giorno e lui non vi aveva prestato attenzione. Forse. O forse lo aveva semplicemente scelto e “... a culo tutto il resto” come auspicava il suo adorato Guccini nell’Avvelenata.

 

Chiuse la porta di casa lasciandoci dentro i pensieri. Nell’androne incontrò Giannino, un ragazzino obeso che abitava al piano sopra al suo e che lo salutò con fervore. Lui non rispose. Odiava i ciccioni ma soprattutto odiava i convenevoli e le frasi di rito. L’altro invece a sorpresa, gli andò incontro per fargli gli auguri di Natale e tendergli - Vade retro! - una mano dalle dita grassocce. Arturo lo scansò e rispose con un “Uhmf” impettito e di circostanza.

 

«Auguri lo stesso, Signor Longhini» gli disse ugualmente Giannino sorridendo con la chitarra a tracolla, prima di scomparire dal portone.

 

Che noia! - pensò lui dirigendosi verso il supermercato. Acquistò l’albero - ne scelse uno piccolo, bianco argentato – i festoni colorati e le luci. E quando uscì colmo di pacchi – come chiunque in quel momento - si richiese nuovamente se fosse impazzito o cosa. Era la sera del ventitré dicembre e la folla di gente che incrociava per strada, continuava a urtarlo mettendolo ulteriormente a dura prova.

 

Odiava tutti.

 

Quando fu a casa, mise in posizione l’albero. Gli distese i rami. L’argento luccicante gli finì sulla fronte appiccicandosi col sudore. Mise le luci e poi le altre palline che aveva comprato. Poi, mise mano alla scatola con le quattro che gli aveva venduto il vecchio. Si sentiva emozionato. La aprì con foga.

 

- È ufficiale, sono un povero pazzo! -

 

Vide che avevano un numero sopra: uno, due, tre, quattro.

 

Ma cosa vuol dire? - si chiese. Prese quella con su’ scritto il numero uno. La guardò rigirandola fra le dita. Era trasparente, quasi luminosa. E aveva qualcosa dentro.

 

L’appese all’albero. E stette a rimirarne l’effetto.

 

- Ma cosa? Che diavol...? esclamò fissando la pallina. Qualcosa si muoveva all’interno.

 

- Non è possibile! - Strinse gli occhi. Una figura umana minuscola si era attaccata alle pareti di vetro resina della pallina con i palmi delle mani, come se volesse uscire.

 

Oddio! - urlò spaventato. Corse a prendere la lente di ingrandimento. L’avvicinò alla sfera trasparente. Vide che la figura in miniatura aveva il viso deformato dal terrore. Picchiava i pugni sulle pareti della pallina e muoveva le labbra senza che un solo suono uscisse dal vetro: la riconobbe. Era la sua insegnante delle elementari.

 

Quando ritrovò il coraggio di riprendersi dallo shock, le parve quasi una cosa normale – Tanto sono impazzito – si disse.

 

«Signorina Negri!» esclamò «cosa ci fa lì dentro?». L’altra lo sentì e urlò senza voce sbattendo i pugni.

 

«Mi ricordo di lei, sa?» continuò Arturo « mi metteva sempre dietro la lavagna e mi prendeva in giro perché avevo gli occhiali. Come mi chiamava? Brutto quattrocchi, se non erro».

 

La Signorina Negri, fece cenno di no con la testa, sbattendo la testa sul vetro. I capelli grigi avvolti in una crocchia con un mollettone.

«Oh, sì sì. E si ricorda di quella volta in cui mi ero fatto la pipì addosso perché non mi aveva fatto andare in bagno? Rise tutta la classe. E io non sapevo dove nascondermi mentre lei si dava da fare per fare notare a tutti la chiazza scura sui miei pantaloni».

 

La donna allargò le labbra e continuò a negare.

 

«E lasciamo perdere il resto, eh? La mia dislessia ad esempio: che mi è costata la pagella più bassa di tutta la classe per anni e nessuna comprensione. Soprattutto la sua».

 

Arturo si rigirò la pallina fra le mani e la maestra Negri, ruzzolò all’interno cercando di rimanere in equilibrio.

 

«Sa cosa le dico, maestra? Tanti auguri e buona permanenza» le disse lui mentre copriva con enorme soddisfazione la pallina con un festone fucsia bello grosso.

 

Galvanizzato, afferrò la pallina con la scritta due. Stavolta non si spaventò del contenuto ma anzi si precipitò a osservarlo, impugnando la lente con curiosità: stavolta c’era un uomo. Aveva la tonaca nera. Teneva il palmo delle mani aderenti alla sfera, come la maestra. Riconobbe anche lui: Don Felice, il prete del catechismo. Tendeva il crocefisso verso il suo viso come a volerlo esorcizzare. Gli occhi fuori dalle orbite.

 

Arturo passo un dito sulla pallina rossa. Lui si spostò terrorizzato cadendo in mezzo alla sfera e rimanendo a gambe aperte.

«Toh! Chi si vede, il Don!» disse ridendo «Non ci posso credere! Colui che mi ha insegnato che Dio mi avrebbe punito per ogni cosa che avessi fatto, pensato e detto. E sai Don, per le tue cazzate non ci dormivo la notte! Hai fatto di me un ateo triste e rancoroso. Ne sarai sicuramente soddisfatto, immagino».

 

Don Felice si strinse nella tonaca e scosse la testa come se fosse stato accusato ingiustamente. Arturo continuò:

 

«Ti ricordi quando mi costringevi a confessarmi? Mi facevi sentire in colpa per cose che ogni ragazzino normale faceva a quell’età. E tu ci riuscivi peggio di chiunque altro».

 

Prese la pallina fra due dita per poi sbatterla come una bottiglietta di fermenti lattici prima di essere ingerita. E mentre l’altro lo guardava supplicante, la coprì con un bel festone blu come il cielo: quello da cui - suppose - avrebbe dovuto spuntare il dito teso di Dio.

 

- Ah, che bella soddisfazione! -

 

Arturo si chiese chi sarebbe stato il prossimo.

 

- Bisogna festeggiare! Per la prima volta dopo tanto tempo, mi sento felice! -

 

Decise di andare a prendere una bottiglia di Berlucchi e l’aprì facendo saltare il tappo con uno schiocco. Si versò una dose generosa in un bicchiere e bevve tutto d’un fiato, afferrando la pallina con la scritta “tre”.

 

Subito pareva non esserci nessuno. Poi lentamente apparve. La lente d’ingrandimento mise in evidenza il volto di una ragazza. Aveva i capelli biondi e urlava facendo comunque attenzione a non rovinarsi il trucco. Era Valentina, la sua prima ragazza. Ad Arturo all’inizio fece quasi pena, poi un fiume in piena lo travolse di ricordi. Ed erano tutti dolorosi.

 

«Oh, Vale! Che incredibile circostanza ci fa rincontrare!» disse rivolto alla sfera con un sorrisetto ammiccante. La ragazza si allontanò per fare la stessa fine degli altri: precipitò nel centro finendo a gambe aperte, lasciando scoperto il sedere. Cercò di ricomporsi subito ma il rimmel le scese lungo le guance facendola apparire come un triste Pierrot: il fondo schiena, era decisamente l’ultima cosa interessante da vedere.

 

«Come sta il mio migliore amico, cara? Vi frequentate ancora? Spero di sì, era quello che ti meritavi alla fine. Dopo di te, ho odiato tutte le donne che mi si sono avvicinate. Sai? Fare il cornuto ti segna» disse cercando di non scordarsi nulla di tutto quello che aveva passato a suo tempo. Poi continuò:

 

«Ma a pensarci bene, non è solo colpa tua. A guardare solo le apparenze, non puoi che ricevere la medesima cosa: apparenza!

Fuffa! E di questo, tu mi sei stata maestra. Tu, e gli amici che mi hanno tradito» aggiunse togliendosi gli occhiali: «Anzi, sai che ti dico, non ti voglio proprio vedere: se lo avessi fatto prima, ora non sarei quello che tristemente sono diventato».

 

Alzò il bicchiere e brindò alla donna dentro la sfera che ora tirava calci inutilmente verso il vetro. Arturo ci pensò bene e per coprire quella pallina, scelse un festone verde: - Verde! Come la speranza di non dover mai più incontrare donne così nella propria vita -

 

Sorrise soddisfatto.

 

Si prese del tempo prima di guardare nell’ultima sfera. Era emozionato. Non aveva idea di chi vi avrebbe trovato a quel punto. Si versò un altro bicchiere e si accese una sigaretta. L’ultima pallina con la scritta “quattro” era ancora nella scatola di cartone. Gli soffiò sopra il fumo e poi l’afferrò con due dita. Si rinfilò gli occhiali e guardò.

 

C’era un uomo. Non stava con le mani appoggiate al vetro ma gli dava la schiena. Pareva abbattuto, ripiegato su sé stesso. Arturo rimase perplesso. La girò e rigirò ma l’uomo ruotava con la sfera stessa, dandogli sempre la medesima schiena.

 

Decise di appenderla all’albero. L’uomo finalmente, si girò. Arturo sgranò gli occhi e vide sé stesso. Il piccolo sé, lo guardava triste da dietro il vetro trasparente; le sopracciglia inarcate come se avesse mille domande da porgli, senza fargliene realmente nessuna.

«Cristo santo! Sei me?» chiese bevendo dal bicchiere tutto d’un fiato. L’altro fece cenno di sì con la testa.

 

Arturo rimase in silenzio qualche istante. Accarezzò la pallina con dolcezza e il suo viso si rispecchiò sul vetro come nella fotocamera dei cellulari quando si fanno i selfie da vicino. Il suo naso diventò enorme e gli occhi gli si colmarono di lacrime.

 

«È giusto. L’ultimo prigioniero sono io» disse. E poi aggiunse:

 

«Del resto, il vero responsabile di tutto il male che mi sono fatto - oltre a quei tre – alla fine, sono solo io» ripeté amareggiato ad alta voce.

 

L’uomo Arturo dentro la pallina fece cenno di sì con la testa.

 

«Non ho fatto nulla per reagire. E molto, molto altro... Anzi, sono diventato molto peggio di loro» disse a se stesso.

 

L’omino nella sfera incrociò le braccia strette al corpo come per volersi abbracciare e si cullò su se stesso. Arturo lo guardò poi capì: «Ma ora è giunto finalmente il momento di perdonarmi vero? Questo vuoi dire?» chiese.

 

L’uomo Arturo si avvicinò alla sfera e invece di metterci le mani sopra come gli altri, annuì sorridendogli e allargando le braccia. Arturo fece appena in tempo a vederlo strizzargli un occhio.

 

La sfera improvvisamente diventò bianca. Poi di nuovo rossa, verde, blu e alla fine dorata. Si dissolse in una nuvola colorata e la polvere gli finì sulle mani. L’albero di Natale si accese da solo e illuminò tutta la stanza compreso il volto estasiato di Arturo. Come un arcobaleno in estate, tutti i riflessi dei suoi colori, si rispecchiarono nei suoi occhiali.  I suoi occhi brillarono di un azzurro intenso sotto alle ciglia nere e finalmente il suo cuore si aprì.

 

- Puoi farcela! - disse qualcosa dentro la sua testa.

 

 

Scattò in piedi. Prese un altro bicchiere e lo posò sul tavolo accanto al suo. Andò quasi di corsa verso la porta e si precipitò sulle scale, al piano di sopra. Suonò ansimante il campanello restando in attesa.

 

Un secondo e poi Giannino dall’altra parte rispose: «Chi è?».

 

Buon Natale a tutti

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Articolo pubblicato il 22/12/2019