Elogio del Garbo

Proseguono le considerazioni sulle sette Virtù "Capitali". Il Garbo, una Virtù da non trascurare

 

 

Elogio della Virtù del Garbo

 

“Maniera compita e amabile di trattare e di comportarsi.” Questa è la definizione di garbo che ci dà il vocabolario, che continua con esempi come “scrivere e parlare con garbo” e chiama “uomo di garbo” chi si comporta con civiltà e con bel modo.

Una definizione colma di espressioni desuete, di aggettivi poco praticati, come compito e amabile; ricordano la “grazia e la sprezzatura” del “Cortegiano” di Baldassar Castiglione. Il garbo appartiene a chi ama l’eleganza e la discrezione nel modo di presentarsi, nel tono della voce, negli abiti che indossa, nelle parole che pronuncia o anche nelle scelte professionali. Disgraziatamente è facile assistere a scene che di garbato hanno ben poco.

Cos’è più lontano dal garbo, per esempio, che presentarsi masticando un chewingum a bocca aperta, entrare nella sala d’aspetto di un professionista qualsiasi con il cellulare in mano, magari in viva voce, comunicando agli attoniti presenti con voce stentorea che finalmente il kiwi ha avuto il sopravvento sulla mela e il riso tra le calorose congratulazioni dell’interlocutore, condite dal più consueto tra gli amabili intercalari oggi diffusi? Oppure di presentarsi con la più sdrucita tra le proprie tute e le unghie sporche nella sala del più noto e raffinato ristorante della zona, riservata dalla propria sventurata compagna di classe per la festa dei suoi diciott’anni, talmente convinta che il nome del ristorante e soprattutto un minimo di rispetto per il proprio invito scritto a mano non richiedessero il consiglio, che a lei sarebbe parso quasi offensivo, “E' gradito l’abito scuro” o una delle più attuali sigle del dress code? Oppure di una sequela di scene cinematografiche violente o di letto (o di altri luoghi scelti all’uopo da ineffabili  e inarrestabili fantasie)  che, con tutta la buona volontà, non si riesce proprio a considerare necessarie per capire il messaggio del regista? E allora? Vogliamo difenderlo, questo garbo, oppure no? Direi che vale la pena di provarci, perché di gente educata, attenta alla forma e non al formalismo, che ha capito che la forma è sostanza, è pieno il mondo: il mondo della scuola, del lavoro, della cultura, dello spettacolo. Senza andare troppo lontano, tutti gli sgradevoli esempi che ho riportato sopra rappresentano l’eccezione, non la norma. Solo, per chi è garbato, discreto e non urla a volte è difficile far ascoltare il suo silenzioso e prezioso messaggio nel frastuono che creano i maleducati e gli zoticoni. Tuttavia, continuando a tacere, ad ascoltare e a rimanere composto, rappresenta sempre un buon esempio. E sappiamo tutti che alla lunga l’esempio, costante e determinato, è più efficace di qualsiasi sfuriata. 

C’è un modello di garbo che tutti, volenti o nolenti, abbiamo avuto sotto il naso per molto tempo, e per di più in un’età, l’adolescenza, in cui l’appello al buon gusto è importante e soprattutto può essere efficace, magari non tanto nel presente quanto nel futuro.  Parlo del mio libro preferito: I Promessi Sposi, del mio caro don Lisander.

Aprire I promessi sposi, oggi come oggi, significa entrare in un mondo che va controcorrente: non ci sono parolacce, non c’è volgarità, non c’è violenza e le descrizioni grondanti di compiacimenti morbosi, così appetite da chi vuol fare audience sulle spalle del pubblico più debole, sono bandite dalla storia.

Eppure il materiale  per un romanzo piccante, per una fiction ai limiti del blasfemo, per un film pieno di sangue e  violenza non manca assolutamente: un signorotto rozzo e violento vede una bella ragazza del popolo e non esita a mandare a monte il suo matrimonio per avere campo libero con lei e dimostrare al futuro sposo chi ha il coltello dalla parte del manico, un’altra  donna subisce una spaventosa  violenza psicologica da parte del padre che la costringe a diventare addirittura monaca di clausura, viene commesso un omicidio per futili ragioni, un uomo potentissimo e feroce sparge il terrore nel suo territorio, i lanzichenecchi invadono il Milanese e portano con sé morte e distruzione, oltre alla  peste che miete migliaia di vittime. Ma di tutto questo, alla fine della lettura del romanzo, ci ricordiamo solo nei termini di una storia che si è conclusa, dopo tante peripezie, con il matrimonio dei due promessi sposi, che devono, è vero, andarsene dal Lecchese e finire nella Bergamasca, ma tutto sommato sono riusciti nel loro intento di sposarsi e hanno ottenuto la famiglia che volevano.

La più celebre reticenza di tutta la storia della letteratura italiana, “La sventurata rispose”, permette a Manzoni di omettere tutto il drammatico susseguirsi di delitti, violenze e sopraffazioni che costellarono la vita della sventurata Gertrude, la cosiddetta “monaca di Monza”, dopo la sua “risposta” ad Egidio, il suo amante e aguzzino.

Non è un caso che proprio questa infelice monaca per forza sia stata nel tempo il soggetto preferito, tra tutti quelli dei Promessi sposi, di film, racconti e fiction, che hanno raccontato tutti i dettagli più morbosi del suo rapporto con lo scellerato Egidio, la crudeltà dei loro delitti, gli infanticidi, le atrocità delle torture cui fu sottoposta. Ma non mi sembra che tutto ciò abbia aggiunto niente alla tragedia che quelle tre parole, ovviamente lette nel contesto del decimo capitolo del libro, sottintendono magistralmente.

E senza turbare nessuno, nel rispetto della sensibilità del lettore, come vuole la virtù del garbo. Quel garbo che si riconosce nello sguardo sempre attento e rispettoso di chi ci ascolta o nella pazienza di chi ci aspetta se siamo un po’ in ritardo, senza sbraitare; osserviamoli, questi comportamenti, imitiamoli, anzi coltiviamoli dentro di noi con cura, così che i semi di questi fiori delicati non vadano persi.

 

 

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Articolo pubblicato il 28/01/2020