Uso e abuso del "tu" nel terzo millennio.
Quinto Cenni - Soldati dell'ex Reggimento di Cavalleria Leggera Toscana e del Reggimento Dragoni dell'Emilia (1860).

di Alessandro Mella

Qualche giorno fa mi capitò un fatto assai curioso. Suonò il telefono, uno dei soliti call center. In genere cerco di dedicare qualche istante al mio interlocutore perché, per scrupolo di coscienza, presumo non faccia vita facile con quel mestiere pieno di scortesie e spesso malpagato. La giovane cerca mio padre e quando rispondo di essere “il figlio” lei mi replica con “Ah, allora posso darti del tu”.

 

La cosa mi procura un certo fastidio per cui replico con tono scherzoso e non troppo seccato “Veramente non abbiamo mai preso un caffè insieme”.

 

A distanza di poco, uscendo da una caffetteria, pago e saluto con un “buongiorno e buon lavoro” e mi si replica “Ciao”.

 

Ora mi si potrebbe accusare di esagerare, di pretendere troppo, di essere antico, di fare l’antipatico e tutto quel che si vuole. Ma ho molti capelli grigi, una bella pattuglia di bianchi, abbastanza per essere cresciuto in un tempo in cui la forma e l’educazione avevano ancora un valore.

 

Ed anche il garbo, che cerco di riservare a tutti.

 

Il “tu” è molto bello, confidenziale, intimo, prezioso ma non è un qualcosa di scontato. È un po’ come l’amicizia che rappresenta. Si conquista, si costruisce, si crea nel tempo, è frutto di complicità ed intesa. Non è un qualcosa che si può rubare con un colpo di mano al primo passante per strada. Richiede tempo e cura per essere costruito e solidificato. Per avere un valore ed una forza tali da resistere all’usura del tempo e alle miserie della vita.

 

Pretendere che non diventi un vizio diffuso non è una forma di arroganza ma il vivo e vibrante desiderio di proteggerne il valore e non svenderlo come tante buone abitudini già sono state disperse. Di porre un argine a questo costante appiattimento della società verso il basso. In nome di una falsa uguaglianza che calpesta l’equità, il merito, il valore e le individualità (tutte rispettabili ovviamente ma stupendamente diverse tra loro).

 

Non si pretende l’uso del bellissimo “voi”, la cui fonetica armonica si può ancora udire nel nostro bel meridione, bollato purtroppo da deliranti e insane etichette politiche immeritate e dalla damnatio memoriae. Ma almeno un dignitoso “lei” per gli sconosciuti sarebbe opportuno.

 

Forse sarò io ad essere fuori dal tempo e dal contesto ma non posso pensare di approcciarmi ad una persona, magari con il doppio dei miei anni od un ruolo sociale e istituzionale altissimo, come se fosse un ragazzino od una ragazzina. Ecco perché io seguiterò, forse passando per ottuso polemico, a dare del “lei” alle persone con rispetto e stima. Anche a costo di sembrare un vecchio e superato gentiluomo ottocentesco fuorimoda, un vecchio ufficiale risorgimentale tirato fuori dalla naftalina e rimestolato in salsa vintage.

 

Il “tu” lo riserverò a chi mi consentirà e donerà questo ambito privilegio, a chi condivide con me tante cose inelencabili perché troppo diverse e numerose e così via.

 

Come s’usava nel buon tempo antico quando le persone non erano automi nel gregge. Non è una colpa riscoprire il valore del “lei” per imparare ad amare ed usare con maggior passione e senza abuso il prezioso “tu”. Si può essere conoscenti, colleghi, allievi, gregari, sconosciuti o tutto quel che si vuole. Ma sono il tempo, gli aneddoti e le cose condivise a rendere amici. Cosa per cui, abbiate pazienza, non bastano cinque minuti. A volte nemmeno una vita intera.

 

Alessandro Mella

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Articolo pubblicato il 22/02/2020