Letterina di (quasi) primavera.

Si narra che un giorno un derviscio incontrò la Peste sulla strada verso Damasco…...

Si narra che un giorno un derviscio incontrò la Peste sulla strada verso Damasco.

«Quanti ne ucciderai, questa volta?», le chiese.

«Trecento», rispose la Peste.

Mesi dopo si rincontrarono, e il derviscio protestò:

«Mi hai ingannato, i morti dopo il tuo passaggio sono stati più di mille!».

Ma la Peste replicò: «Non so, io ne ho presi trecento, gli altri se li deve essere presi la Paura …».

 

Un piccolo sorriso è transitato per un attimo sul vostro viso? Speriamo di sì, sarebbe una buona cosa, vista l’aria sempre più pesante che i media ci stanno facendo respirare, in questi giorni.

Beninteso, non vogliamo minimizzare un fenomeno di cui non si scorgono ancora i veri contorni, in termini di pericolosità. Però … il coronavirus non è propriamente “la Peste”! Come diceva René Daumal, a volte usiamo parole troppo grosse (e tutto il resto che ne consegue) per fenomeni ed emozioni che non lo meritano veramente.

Nel senso che, per quanto ne sappiamo, ogni anno transita nella nostra società un’influenza che coinvolge circa il 9% della popolazione (quindi circa 5 milioni di persone, in Italia, tra cui molti bambini) e che diviene letale per lo 0,1% dei malati (cioè circa 5.000 esseri umani, di cui molti affetti da altre patologie).

Più o meno quello che sta accadendo adesso, salvo che – forse – il tasso di mortalità potrebbe essere più elevato (ma il tasso di diffusione è per ora più basso, e non coinvolge i bambini).

La Peste faceva molte ma molte più vittime, e – tanto per fare un esempio più vicino nel tempo – l’influenza detta “Spagnola” dell’inizio del secolo scorso causò la morte di oltre 50.000.000 (sì, cinquanta milioni!) di esseri umani, il triplo dei caduti della Prima Guerra Mondiale.

 

Quello che invece è certamente drammatico è l’impatto che questo virus (o – per meglio dire – il nostro modo di reagire alla sua comparsa) ha sulla società e sul suo funzionamento.

Ci siamo tutti accorti improvvisamente di come le cose siano interconnesse: il commercio per esempio vive di movimento (delle persone per i più svariati motivi, delle merci da ogni dove, del denaro che deve fluire tra fornitori e consumatori), lo spettacolo si nutre di assembramenti di persone (oggi ovviamente vietati), la salute stessa è regolata – anche – da un corretto equilibrio numerico tra pazienti e personale medico (nonché posti-letto nei reparti di terapia intensiva degli ospedali).

La società moderna sta mostrando oggi tutta la sua fragilità, la sua fondamentale precarietà, i limiti stretti che intercorrono tra “una cosa che funziona” e “una cosa che non funziona”.

Un po’ come accade nell’organismo umano, dove il fattore Ph nel sangue può oscillare pochissimo, soltanto da 7.36 a 7.45. Quando questo valore si abbassa il sangue diventa troppo “acido” e il corpo diventa più vulnerabile alle malattie degenerative, poiché in un ambiente acido batteri e virus (guarda un po’!) entrano più facilmente e possono proliferare.

Che il nostro modo di vivere attuale sia diventato troppo “acido” lo dimostra (oltre e moltissime altre cose) la patologia principale di cui soffrono gli esseri umani oggi: lo stress.

E così, come sempre accade a tutti noi quando superiamo il nostro giusto limite, anche la nostra società si è ammalata.

 

V’è poi un altro aspetto abbastanza sorprendente.

Tutti noi viviamo in genere, più o meno consapevolmente, in una condizione di solitudine esistenziale abbastanza costante, come se fossimo stati abbandonati nudi o quasi su questo pianeta e dovessimo arrangiarci per sopravviverci, lottando ogni giorno contro tutto e – sovente – contro tutti. E apparentemente quello che sta accadendo ora ci allontana ancora di più dai nostri simili, non è vero? Isolamento, quarantena, confini chiusi, razzismo esacerbato (ah, i cinesi … ah, gli italiani …).

Ma se ci riflettete bene, ciò che accade è proprio la dimostrazione di quanto siamo invece legati l’uno all’altro, di come la sorte di ciascuno di noi sia connessa a quella degli altri esseri umani del pianeta, di qualsiasi etnia siano. Noi siamo sempre tutti insieme, tutti legati, tutti interdipendenti, solo che in genere non ce ne accorgiamo …

Chi di noi, davanti al collasso dell’economia che ci minaccia, non ha oggi timori per il proprio lavoro, e quindi per la propria capacità finanziaria di mantenere se stesso e i propri cari? Alcuni di noi si sentono soli davanti al fato avverso, sicuramente.

Ma il problema finanziario che – forse – si diffonderà su larga scala non riconosce etnie, è “mondiale”, tocca tutti … per cui è certo che non siamo e non saremo soli davanti a questo problema, che una soluzione verrà trovata, che l’ingegno umano troverà – ancora una volta, come tante altre nella storia – la maniera di superare il guado, adattandosi a una nuova condizione.

Però è chiaro che sarà tutto un po’ diverso, questa società sta passando una boa della sua storia e il prossimo tragitto non sarà lo stesso di prima.

Dobbiamo stare a casa, non possiamo riunirci, né per lavoro né per svago, niente eventi pubblici di massa, figli a casa da scuola … Questo significa anche che mille cose importantissime che fino a ieri occupavano la nostra giornata sono di colpo rallentate, quando non del tutto evaporate … Vuoi dire che ci tocca stare con noi stessi? Cribbio, non siamo abituati …

 

Però amici, che opportunità!

Cosa succede se il nostro ritmo di vita rallenta? Se realizzo per esempio che solo una corretta relazione tra il mio interno e il mio esterno, cioè tra me e l’ambiente intorno a me, renderà armonico il mio sistema immunitario, che è l’unico vero garante della mia salute?

Magari vado a vedere se tale relazione è davvero corretta, se ha bisogno di una revisione, o di un aggiornamento (fateci caso, nei computer è necessario un riavvio quando si vogliono inserire gli aggiornamenti), o addirittura di un “reset”, dell’installazione di un nuovo programma.

Noi che stiamo scrivendo siamo coinvolti nel commercio, e quindi assaliti sovente da timori per il futuro, come è logico. Per non soccombere abbiamo scelto una certa linea di comportamento, che abbiamo cercato di raccontare in questo scritto: guardare con lucidità cosa accade nel mondo, senza farsi trascinare da facili credenze e dall’emotività della massa; cercare dentro noi stessi una base solida per affrontare questo snodo esistenziale; continuare a fare bene il nostro lavoro, senza pensare al denaro, senza temere il futuro.

 

Cerchiamo in sostanza di fare nostra una massima che Seneca scrisse più di duemila anni fa:

“Presi nel vortice degli affari e degli impegni gli uomini consumano la propria vita, sempre in ansia per quello che accadrà e annoiati di ciò che hanno. Chi invece dedica ogni attimo del suo tempo alla propria evoluzione, chi dispone ogni giornata come se fosse la vita intera, non aspetta con speranza il domani né lo teme".

 

Segnavento

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Articolo pubblicato il 11/03/2020