Anniversari da non dimenticare - Edgar Rice Burrougs: il papà di Tarzan

Massimo Centini per Civico20News

Settant’anni fa moriva l’uomo che ebbe l’idea dell’“Uomo scimmia”: era un americano, Edgar Rice Burroughs (1875-1950), che nel 1912, in un pensionato per vigili urbani scapoli, scrisse Tarzan l’uomo scimmia, si dice sul retro dei moduli per le contravvenzioni, ma forse è uno dei tanti miti che circondano gli autori delle opere di successo.

 

Burroughs lavorò parecchio intorno al suo protagonista: partì da Tantar, passò per Tublat-Zan, per giungere all’immortale Tarzan.  Un’immortalità a tutti gli effetti, testimoniata da decine di film e reinterpretazioni letterarie, gadget e, forse in modo un po’ kitsch, dal nome della città California in cui riposano le spoglie mortali di Burroughs: Tarzania...

 

Nella prima storia (l’autore ne scrisse un centinaio) è contenuto l’incipit della vicenda, da cui tutte le successive dipenderanno: si narra del viaggio di Lord e Lady Greystoke che, nel 1888, partirono dall’Inghilterra, con il loro bambino, alla volta dell’Africa. La loro nave naufragò: perirono tutti, solo il piccolo si salvò grazie all’istinto materno di alcune scimmie delle quali divenne il re. In pratica l’assorbimento nella comunità sancisce la sua seconda nascita che, nello spirito antropocentrico, lo farà sovrano delle specie inferiori.

 

Ma il suo non sarà un compito facile perché dovrà difendere la giungla: lo farà con il suo coltello e la sua forza, accompagnati dall’indimenticabile urlo capace di ammantare di sacro quei passaggi tra liana e liana e che ne faranno una sorta di semidio agli occhi degli autoctoni.

 

Indubbiamente, lo stereotipo di Tarzan ha un po’ risentito delle mode anche se non troppo: questa micro-evoluzione è nitidamente visibile osservando il susseguirsi di film che l’hanno visto protagonista.

Tarzan of the apes si intitolava il primo film dedicato a uno degli eroi buoni del cinema, che nel 1918, vide la luce sull’emulsione fotosensibile della pellicola di celluloide.

 

Era il principio di un’era fatta di una visione un po’ romantica della natura, che per certi aspetti evocava Rousseau, ma per il grande pubblico quel lungometraggio firmato Scott Sidney e interpretato da un ex poliziotto truccatissimo, Elmo Lincoln, era il trionfo del selvaggio e capace di difendere a ogni costo la sua identità, più letteraria che antropologica.

 

Dalle prime pellicole fino ai rifacimenti più recenti (si pensi al Tarzan king of jungle della Walt Disney), scopriamo che il modello antropologico non si scosta molto dal prototipo iniziale: Tarzan è bello, forte, con un corpo statuario, conosce il linguaggio degli animali, sa interpretare le voci della natura, dalla quale ottiene aiuti spesso straordinari, negati ai bianchi e guardati con timore dalle genti del luogo.

 

Un buon selvaggio, ma addomesticato dall’interpretazione culturale osservante, che crede alle prospettive di Rousseau, Emerson e Junger, ma nello stesso tempo ritiene, più o meno inconsciamente, che la natura debba essere ben separata dalla cultura.

 

Quasi sempre interpretato da ex atleti e cascatori (emblematiche sono le figure di Johnny Weissmuller, campione di nuoto, o dell’imponente  Gordon Scott) Tarzan è per alcuni l’anarchico che ha avuto la fortuna di sottrarsi alle leggi e alle convenzioni della civiltà.

Ma ciò, crediamo, corrisponde solo parzialmente al vero, in quanto l’uomo-scimmia (questa definizione ricorrente la dice lunga sull’antropocentrismo dell’uomo civile) comunque ha delle regole, rispetta con grande impegno il meccanismo apparentemente elementare della natura di cui si sente parte integrante, avendo ormai totalmente dimenticato la sua origine umana. Origine che gli viene ricordata dai bianchi esploratori, però solo quando fa comodo a loro e quasi sempre dipinti come insensibili conquistatori alla ricerca di avorio, pelli e trofei, o improbabili tesori millenari.

 

Lo stereotipo di Tarzan è, in fondo, quello che ognuno di noi non vuole perdere, perché dà un senso all’archetipo del selvaggio che alimenta il nostro immaginario. I tentativi di trascinare questo mito nel gorgo delle consuetudini e sotto certi aspetti della dissacrazione contemporanea, con riletture tra il comico e l’erotico (da Totò Tarzan a Tarzan e le guerriere dal seno nudo, fino a Tarzun: la vergogna della giungla) non hanno avuto eco, anche se via via è stato “umanizzato”.

 

Emblematica  la variazione dell’epiteto Tarzan “uomo scimmia” in “uomo delle scimmie”; la sua collocazione socio-culturale è stata condotta verso stadi che ne normalizzassero la condizione: accanto alla fedele scimmia Cita, è stata posta una compagna, Jane, bianca come l’eroe della foresta. Anche l’abbigliamento di Tarzan indica l’addomesticamento subito: l’atavica pelle di leopardo è stata sostituita da un perizoma. I fumetti hanno fatto di più: Burne Hogarth ha coperto il nostro con calzoncini di leopardo, unendo così in un solo “segno” il selvaggio della Natura e la praticità della Cultura.

 

Oggi però parlare di Tarzan come del re della giungla, come archetipo del buon selvaggio non ancora animale, ma non più uomo, può forse far sorridere. Perché ormai di foreste vergini non ce ne sono più e la giungla si è trasferita nelle città. È in quel caos di auto, fumi, violenze verbali e non, che si esprime una nuova forma di selvaggio, ben lontana da quella che l’uomo scimmia sa evocare.

 

Malgrado tutto la metafora di Tarzan può aiutarci a ritrovare un certo senso della vita, più autentico, in cui hanno ancora importanza le cose semplici e i rapporti veri. Riferimenti senza tempo, rinvenibili nelle gesta di quell’eroe riuscito a battere leoni, coccodrilli, temibili “cannibali” e cacciatori di frodo ma che, temiamo, forse finirebbe miseramente nelle nostre metropoli dove, con il paradosso della civiltà, probabilmente nessuno si accorgerebbe di lui. Neppure se lanciasse il mitico urlo in metropolitana...

 

Alcuni anni dopo The Lost World (1912) di Conan Doyle (1859-1930), Burroughs (realizzò alcuni romanzi che avevano come focus la terra dimenticata dal tempo: The Land that Time Forgot, The People that Time Forgot e Out of Time's Abyss, tutti del 1918.

 

Di Burroughs va anche ricordato il “Ciclo di Pellucidar” (1922-1963), con una serie di romanzi ambientati al centro della terra, in cui vive una popolazione ancora ferma allo stadio dell’Età della pietra. Nel “Ciclo di Pellucidar” il cosiddetto “Mondo perduto” è situato al centro della Terra, riprendendo così l’ambientazione già proposta nel Viaggio al centro della terra (1864) di Jules Verne (1828-1905).

 

Massimo Centini

 

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Articolo pubblicato il 26/04/2020