Rapper terrorista in cella, islam sempre più radicale. I media europei, troppo impegnati col Coronavirus hanno taciuto la notizia o l’hanno quanto meno sottovalutata. Di Mauro Faverzani
Abdel-Mayed Abdel Bary

Restano aperte le indagini dopo l’arresto di Abdel-Mayed Abdel Bary, che, a soli 29 anni, era lo jihadista più ricercato, tra quelli rimpatriati in Europa.

Indagini che proseguono per un motivo preciso: molto probabilmente, la sua cattura non rappresenta un traguardo, bensì il punto d’inizio di nuovi filoni d’inchiesta. Non si sa, ad esempio, quali fossero le reali intenzioni sue e dei suoi complici: si ritiene che la Spagna, ove è stato bloccato dalle forze dell’ordine, non fosse in realtà la sua destinazione finale, probabilmente aveva per meta un altro Paese europeo, ma quale e perché, al momento, non è dato sapere.

 

Ed è proprio questo che è necessario capire, poiché la presenza di Abdel Bary nel nostro Continente potrebbe rappresentare un tassello di un puzzle molto più intricato. I media europei, troppo impegnati con Coronavirus e vaccini, hanno taciuto la notizia o l’hanno quanto meno sottovalutata, liquidandola in poche righe. Ma il sospetto è che il 29enne egiziano fosse qui, per mettere a punto con altri un piano criminale, non si sa se finalizzato al reclutamento di nuovi terroristi islamici oppure alla messa a punto di un vero e proprio attentato.

 

Di certo non era qui per fare turismo, per questo è assolutamente necessario comprendere che cosa lo abbia condotto in Spagna.

 

Ora Abdel Bary, egiziano, trascorre le sue giornate in una cella d’isolamento da 10 metri quadri nel carcere di Soto del Real (Madrid V), da cui non può uscire, nemmeno per un istante. Blindata è stata però anche la sua bocca tanto durante l’interrogatorio della Polizia quanto di fronte al giudice.

 

Le indagini, durate circa tre mesi, si sono concluse nelle prime ore dello scorso 20 aprile, quando le forze dell’ordine hanno fatto irruzione in un appartamento in pieno centro ad Almería e lo hanno arrestato, assieme ad altri tre complici. La biografia di Abdel Bary aiuta a far luce su cosa lo abbia spinto ad imbracciare le armi nelle fila dell’Isis.

 

Quando aveva 6 anni, viveva in Egitto con la sua famiglia. Suo padre Adelfu arrestato e torturato, perché accusato d’essere un islamista radicalizzato. Dopo il rilascio dell’uomo, la famiglia si è trasferita in Gran Bretagna, dove ha chiesto ed ottenuto asilo politico. Qui, però, suo padre ha continuato a mantenere contatti con i vertici della jihad, pare fosse strettamente legato ad Osama Bin Laden, il numero uno di al-Qaeda, collaborando a pianificare i bombardamenti del 1998 sulle ambasciate americane in Kenya e Tanzania, costati oltre 200 morti.

 

Per questo nel 2012 il padre di Abdel Bary è stato estradato negli Stati Uniti, dove è stato condannato a 25 anni di carcere. Nel frattempo, il figlio Abdel Bary è diventato un rapper di un certo successo col nome d’arte L. Jynnay,i suoi brani sono stati trasmessi anche dalla radio britannica: a partire da quello stesso 2012, però,le sue canzoni hanno cambiato soggetto, non hanno più parlato di lui, di droga e di violenza, sono diventate piuttosto una sorta di critica sociale, in particolare contro chi dilapidi il proprio denaro in club, alcool e droghe.

 

Era iniziato un processo di trasformazione o, per meglio dire, di radicalizzazione, che giunse a piena maturazione un anno dopo, il primo luglio 2013, quando il rapper annunciò di voler lasciare «tutto a Dio».

 

Lasciò casa, la madre ed i suoi cinque fratelli, per recarsi in Siria e combattere nelle fila dell’Isis contro Assad nel tentativo di contribuire a fondare l’utopia del “califfato” islamico. Divenne un terrorista a tutti gli effetti, per cui gli venne revocata la nazionalità inglese: nell’agosto 2014 Abdel Bary diffuse una foto, che lo ritraeva mentre sollevava la testa di un «infedele».

 

Sino al giugno 2015 proseguì i combattimenti, poi pare abbia disertato dall’Isis durante le fasi di ritiro dalla città di Tal Abyad: ha attraversato il confine con la Turchia, facendo perdere le proprie tracce. Qui ha ripreso l’attività su Twitter per una settimana, firmandosi col suo nome d’arte, L. Jinnay: agli occhi degli jihadisti era diventato un vero eroe, un mito.

 

Nel 2017, verso fine luglio, postò alcuni video; secondo fonti d’intelligence, nel dicembre dell’anno successivo, era tornato a combattere in Siria, ma si faceva sempre più strada l’ipotesi che potesse decidere di rientrare in Europa attraverso la Spagna. Ed i rimpatriati sono sempre stati considerati, tra i terroristi islamici, come i più pericolosi.

 

All’inizio dell’anno, Abdel Bary si sarebbe incontrato in Turchia con altri tre complici: un algerino, un 22enne di nome Seddiki ed un terzo individuo, ancora non identificato, forse un foreignfighter algerino. Il gruppetto di jihadisti dalla Turchia si sarebbe trasferito prima in Libia, poi in Algeria, ad Orano, servendosi dei corridoi aperti dal traffico di esseri umani.

 

Erano tutti muniti di documenti falsi e di diversi conti bancari. Il loro viaggio è terminato nell’appartamento di Almería, dove sono stati arrestati.

La storia, però, è tutt’altro che chiusa. Altre piste si aprono. E nessuna è rassicurante. Il caso di Abdel Bary non è isolato.

 

In questo periodo, anzi, si è assistito ad un revival del volto più radicale dell’islam, che ha mal digerito la chiusura al pubblico dei suoi tre luoghi più sacri, la Mecca, Medina e la spianata delle moschee di Gerusalemme, nonché il fatto di non poter celebrare in pieno Ramadan l’iftar, il pasto serale che spezza il digiuno quotidiano, assieme a parenti ed amici, in ottemperanza alle restrizioni decretate un po’ in tutto il mondo, per affrontare l’emergenza Coronavirus.

 

Ma la minaccia di rivolte contro tali provvedimenti ha già spinto i vertici istituzionali di molti Paesi asiatici e africani a maggioranza musulmana ad autorizzare comunque l’apertura delle moschee, limitandosi a sperare a questo punto che la pandemia non peggiori.

 

È accaduto, ad esempio, in Pakistan, dove decine di organizzazioni islamiche hanno avvertito per iscritto il governo del primo ministro Imran Khan che si sarebbe dovuto preparare ad affrontare «l’ira di Dio e dei fedeli», nel caso avesse tenuto chiuse le porte delle moschee. E lui ha dovuto ubbidire, pur concordando con i principali leader religiosi (ma non con tutti) quanto meno una ventina di condizioni elementari da rispettare, per poter accedere a tali luoghi, quali il rispetto delle distanze di sicurezza, l’uso di mascherine e guanti, abluzioni a casa prima di recarsi in moschea e via elencando.

 

In Indonesia, gli imam hanno preteso ed ottenuto che avesse luogo comunque il tradizionale pellegrinaggio tra le città.

 

Insomma, l’esatto opposto di quanto avvenuto in Occidente, dove i Vescovi cattolici hanno blindato le chiese addirittura prima che la richiesta giungesse loro dalle autorità civili e senza opporvi, di conseguenza, alcuna resistenza, all’insegna di una resa totale, immediata ed incondizionata della Chiesa allo Stato, inedita nei secoli, manifestando solo dopo due mesi qualche timido dubbio e qualche pallida obiezione, ma solo a fronte del malcontento crescente, diffusosi tra i fedeli anche più pazienti…

 

corrispondenzaromana.it

 

 

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Articolo pubblicato il 30/04/2020