Georg Friedrich Händel e l’Oratorio Inglese

Nell’ultima fase della sua parabola creativa, il compositore sassone si dedicò soprattutto al genere dell’oratorio, che contribuì a sancirne la fama.

Abituato a vedersi offrire sempre il meglio, nel corso del XVIII secolo il pubblico inglese sviluppò un carattere estremamente volubile, che se da un lato non gli permetteva di influenzare le mode dominanti in Europa – che venivano decise in Italia e in Francia – dall’altro gli consentiva però di sancire il successo oppure la rovina di compositori e cantanti.

 

Nel 1741 con la gelida accoglienza riservata alla Deidamia di Händel, gli appassionati londinesi voltarono definitivamente le spalle all’opera italiana, dimostrando di non apprezzare più le stravaganze dei castrati, le bizze delle primedonne e la spettacolare artificiosità dei libretti e delle messinscene che li avevano fatti delirare fino a pochi anni prima.

 

Per risollevarsi dagli ultimi brucianti insuccessi, che ne avevano offuscato l’immagine di compositore più amato d’Inghilterra, Händel si trovò così costretto – a 56 anni suonati e con una salute ormai malferma – a cercare una nuova strada.

 

Analizzando con cura i gusti del pubblico, il compositore si rese conto che la soluzione poteva essere costituita dall’oratorio in lingua inglese, un genere basato su temi sacri o storici, nel quale gli inglesi potessero davvero riconoscersi. Questa convinzione era anche supportata dal confortante successo che era stato tributato pochi anni prima a lavori come Alexander’s Feast, Saul e Israel in Egypt, nei quali il coro assume un ruolo molto più importante rispetto a quello che ricopriva nelle opere italiane.

 

Per riflettere su quale strada imboccare e disintossicarsi dalle polemiche, nell’estate del 1741 Händel decise di accettare l’invito del duca di Devonshire e viceré d’Irlanda a trasferirsi per qualche tempo a Dublino, dove l’anno successivo fece eseguire per la prima volta quella che sarebbe diventata la sua opera di gran lunga più famosa, vale a dire il Messiah. Le cronache dell’epoca descrivono in termini iperbolici quella memorabile serata, che vide il pubblico dublinese salutare l’opera con un entusiasmo incontenibile e assolutamente senza precedenti.

 

Questo straordinario successo trovava spiegazione in un lavoro che per la prima volta non si basava su un semplice episodio biblico, ma tracciava una profonda riflessione sul Redentore, dalle profezie dell’Antico Testamento, alla sua parabola umana, dall’Incarnazione alla morte in Croce, fino a prendere in esame il senso della sua venuta per gli uomini del XVIII secolo. Inoltre, Händel aveva saputo concepire una struttura di ampio respiro, nella quale andavano a inserirsi mirabilmente arie di grande bellezza e maestosi cori fugati, tra i quali si segnala il celebre Hallelujah.

 

L’anno successivo il Messiah approdò a Londra, trovando l’ostentata indifferenza di molti nobili che lo avevano vezzeggiato fino a pochi anni prima. Questa situazione imbarazzante venne risolta dal re Giorgio II che – visibilmente commosso – durante l’Hallelujah si levò in piedi, subito seguito da tutto il pubblico, inaugurando una tradizione che continua ancora oggi.

 

Sollevato da questo timido ritorno di fiamma da parte del pubblico, Händel si dedicò con la sua consueta alacrità all’oratorio, presentando una lunga teoria di lavori passati giustamente alla storia come il Samson, il Solomon e la Theodora, che gli consentirono di ritrovare il favore incondizionato dei londinesi.

 

Questo idillio venne definitivamente cementato qualche anno più tardi, quando l’ormai anziano compositore si schierò senza indugi al fianco della monarchia, nel corso della guerra che vide l’esercito di Giorgio II impegnato in una dura battaglia contro le truppe di Carlo Edoardo Stuart – noto come il “Giovane Pretendente” – che mirava a riportare sul trono l’Inghilterra la sua dinastia.

 

Le sue ambizioni vennero però spezzate dalla grande vittoria riportata dal monarca Hannover nella battaglia di Culloden del 1746, che il compositore celebrò con i “quattro oratori della vittoria”, l’Occasional Oratorio, il Judas Maccabaeus, il Joshua e l’Alexander Balus, ai quali il pubblico riservò un’accoglienza trionfale. Nel 1749 Händel ottenne un nuovo straordinario successo, facendo eseguire nel Green Park la Music for the Royal Fireworks di fronte a oltre 12.000 spettatori in visibilio e l’anno successivo inaugurò la tradizione di organizzare ogni anno un’esecuzione del Messiah a beneficio del Foundling Hospital, l’istituzione che si occupa dei ragazzi orfani e abbandonati di Londra.

 

A 65 anni Händel poteva vantarsi di avere coronato il suo sogno di diventare il compositore nazionale dell’Inghilterra – di cui nel 1727 aveva ottenuto la cittadinanza – e di aver raggiunto uno status sociale ed economico di cui pochi musicisti suoi contemporanei potevano godere. Purtroppo, le prove per lui non erano ancora finite e – dopo le gravi ferite riportate in un incidente di viaggio in Olanda – il compositore iniziò a soffrire di disturbi sempre più gravi agli occhi, che gli resero terribilmente penoso il completamente dello Jephtha, il suo ultimo oratorio.

 

Le cure dei migliori specialisti si rivelarono del tutto infruttuose e nel 1758 Händel perse del tutto la vista a seguito dell’intervento effettuato dal celebre oculista John Taylor, che otto anni prima aveva operato – anche in questo caso con esiti nefasti – l’altro dioscuro del Barocco tedesco, Johann Sebastian Bach.

 

Il mattino del 14 aprile del 1759, Sabato Santo, Händel morì in pace con se stesso, dopo essersi nobilmente congedato dal mondo nei giorni precedenti. Una folla strabocchevole di migliaia di persone lo accompagnò alla sua ultima dimora, nel Poets’ Corner della Westminster Abbey, accanto ai grandi d’Inghilterra, dove è ricordato da una statua che lo raffigura con un dito piamente rivolto verso il cielo e una pagina del Messiah con la meravigliosa aria I know that my Redeemer liveth, vertice commovente della sua arte smisurata.

 

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Articolo pubblicato il 25/05/2020