Faà di Bruno, un gigante della fede e della carità - Parte 2

Laureato in scienze matematiche ed astronomiche presso la Università della Sorbona

Nel maggio 1854 riprese gli studi prediletti a Parigi in due anni si è laureato in scienze matematiche ed astronomiche, presso la Università della Sorbona. Il titolo gli è stato riconosciuto dal Ministero della Pubblica Istruzione italiano, che lo autorizzava a tenere dei corsi all'Università di Torino. Tenne la cattedra universitaria sino alla fine della sua vita.

 

In questo suo secondo soggiorno a Parigi, lo studioso Francesco Faà di Bruno venne a contatto con il cattolicesimo sociale parigino, con uomini come l'abate Moigno e tanti altri cultori di scienza e pratiche religiose.

A Parigi aveva visto all'opera la Società di San Vincenzo e questa per lui era stata un'esperienza fondamentale, perché, «gli fece scoprire il problema della povertà e della miseria e, insieme, gli additò delle soluzioni che erano accolte con favore dalla sua mentalità in quanto implicavano un grande impegno religioso, con esclusione delle diatribe politiche». ( P. Bassignana).

 

E' qui che il professore Faà ha ammirato gli ostelli per apprendisti, pensioni per operai, l'opera di miglioramento alloggi, l'opera di collocamento cassa di mutuo soccorso, corsi serali. E poi le opere caritative religiose: gli orfanotrofi, catechismo, visita ai poveri, ai prigionieri, ai condannati a morte, agli ammalati, distribuzione dei buoni alimentari.

Rientrato a Torino, diventerà subito il suo campo di prova delle sue sperimentazioni didattiche e delle sue iniziative assistenziali. «Assistenza spirituale e assistenza materiale vanno a braccetto». Tuttavia, «Francesco si preoccupava anche degli effetti devastanti che la stampa areligiosa, quando non apertamente anticlericale, poteva provocare su persone culturalmente poco attrezzate. Nella prima esperienza francese aveva potuto constatare l'utilità degli almanacchi prodotti dalla Conferenza di San Vincenzo[...]». (Cfr. Bassignana)

 

A Torino bisognava contrastare l'influenza provocata soprattutto dal giornale Il Fischietto, fortemente polemico nei confronti della Chiesa. Francesco era convinto che bisognava dar vita a qualche iniziativa più organica, che, sull'esempio francese, si occupasse in maniera continuativa delle necessità, anche materiali, di una moltitudine di giovani donne. Un altro impegno era rappresentato dallo studio e dall'insegnamento. «Da quel momento in poi, - scrive Bassignana – apostolato sociale e attività scientifico-didattica marceranno a braccetto». Per comprendere meglio l'importanza delle opere del Faà di Bruno, Bassignana, cita un importante lavoro, sulla situazione socio-economica di quel periodo della città di Torino.

 

«Torino era una città di diseredati che abbracciavano una parte vastissima della popolazione [...]mostrava una variegata stratificazione della miseria, una piramide che coincideva con lo strato più basso della società ed aveva una base molto larga. Ne facevano parte condizioni tutte di povertà, maggiore o minore, ma assai eterogenee, dal disoccupato all'inabile al lavoro per età o malattia, all'internato in qualche istituzione assistenziale o correzionale, al mendicante saltuario o di professione, alla prostituta, al ladro occasionale o a tempo pieno, al ciarlatano e all'imbroglione, al venditore ambulante di mille cose diverse [...]». (Umberto Levra, L'altro volto di Torino risorgimentale. 1814-1848, Comitato di Torino dell'Istituto per la storia del Risorgimento italiano, Torino 1989, p. 18) Naturalmente l'elenco potrebbe continuare.

 

Per tutta questa gente, «il problema primario da risolvere era quello della fame, di come assicurarsi quel minimo vitale che impedisse di morire prematuramente: a Torino, negli anni intorno al 1848, la durata media della vita si aggirava sui trentacinque anni». Addirittura Levra, notava una «decadenza fisica dei ceti inferiori, la loro bruttezza aggiunta alla denutrizione, alla bassa statura, alle deformità, a una debolezza organica diffusa». Leggendo questa citazione io da buon meridionale, siciliano, scopro una povertà nordica che non conoscevo. Certi storici mi avevano fatto intendere che la povertà era una condizione diffusa soltanto nel Sud della nostra penisola.

 

Peraltro anche lo stesso Bassignana non è da meno nell'analisi impietosa sulla Torino dell'epoca. «I mattinali di polizia riportavano ogni giorno notizie di furti, rapine, stupri. I più esposti ai pericoli e alle tentazioni erano i fanciulli e le donne. Quando la famiglia non era in grado di mantenerli, molto spesso i ragazzi, magari ancora bambini, venivano abbandonati a se stessi, finivano sulla strada, dove si organizzavano in bande o si dedicavano all'accattonaggio, con grave scandalo dei benpensanti [...]Quanto alle donne, la prostituzione era la strada più facile e, spesso, anche obbligata:'per lo più di età compresa fra i 16 e i 29 anni, non mancavano tra loro bambine di 12, 13 anni o addirittura di 9; affette spesso di malattie veneree[...]».

 

Per lo studioso torinese, si trattava di un «esercito», in cui militavano le rappresentanti di tutti i mestieri praticati in città. Nei documenti si possono incontrare: serve, sarte, lavandai, filatrici, cucitrici, cameriere, etc. Poi c'era un altro «esercito» di mezzane, ruffiani, abilissimi nel prospettare a queste donne il miraggio di favolosi guadagni. «Per porre rimedio a questo stato di cose, o quantomeno per dare un po' di sollievo a una popolazione perennemente in bilico fra miseria e degrado, erano sorte numerose istituzioni caritative».

Tra queste iniziative Bassignana ricorda il Cottolengo, don Bosco, Saccarelli, don Cocchi, ma poi c'era anche l'aristocrazia, in particolare la marchesa Giulia di Barolo, che in particolare si occupava della popolazione femminile. In pericolo c'erano le donne di servizio, che negli anni sessanta ammontavano a circa 10.000 su una popolazione di 150.000 abitanti. E su questa categoria che si concentra l'interesse di Francesco Faà di Bruno.

 

Tuttavia il Faà per risolvere questa tragica situazione della fame, propose alle autorità torinesi, l'esperienza della San Vincenzo parigina, dei «fornelli economici» per i lavoratori. L'esperienza prevedeva dei negozi che preparassero e vendessero - non era educativo regalare - vivande cotte, pronte da consumare sul posto o da portare in famiglia, il costo delle quali era bassissimo, ma sufficiente a coprire le spese e capace anche di fornire un piccolo utile, un capitale, in modo che l'opera potesse estendersi ad un numero sempre maggiore di bisognosi.

La proposta non fu accolta, ma nel frattempo, Francesco istituisce lui un fornello che, oltre a fornire vivande, forniva anche medicinali. A questo punto sembra che il sindaco di Torino accolse l'iniziativa, fornendo dei contributi per quattro fornelli.

 

Altra iniziativa interessante del Faà di Bruno è un'associazione che propugnava il riposo festivo per tutti. A questa associazione collaborò anche don Bosco. Scrive Ferrero, il beato «non vedeva il problema della santificazione delle feste soltanto sotto il profilo religioso, ma anche sotto quello sociale: era cosa veramente ingiusta che i datori di lavoro sfruttassero le energie degli operai costringendoli, come scrisse in un appello agli operai, 'a rovinarsi la salute per lavorare la domenica'».

Questa iniziativa del Faà avviò in tutta Italia, la nascita di numerose associazioni per l'osservanza delle feste e suggerivano di servirsi presso i negozianti che osservavano il riposo festivo. Peraltro, «il problema è attuale ancora oggi. A conferma della vivacità 'profetica' delle intuizioni di Francesco».

 

Fa notare Ferrero, che in quell'epoca, c'era anche un problema di igiene, di salute pubblica. Se si pensa che il castello di Versailles, nonostante la vastità, possedeva un solo bagno. Pertanto non bisogna meravigliarsi se anche le case signorili erano sprovvisti di bagno e in molte case non c'era l'acqua corrente. Non esisteva un acquedotto moderno, frequenti erano le epidemie, specialmente durante la stagione calda. Francesco propose al Municipio di Torino un piano dettagliato per la costruzione di una rete di bagni e lavatoi pubblici economici, per contrastare le ricorrenti epidemie come il tifo e il colera, e per soccorrere le massaie, costrette a lavare sulle rive dei fossi, esposte alle intemperie. Ma anche questa proposta il governo liberale massonico non l'ha accolta.

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Articolo pubblicato il 12/06/2020