Faà di Bruno, un gigante della fede e della carità - Parte 3

Tra le tante opere assistenziali create da Faà di Bruno c'è sicuramente l'opera di S. Zita; anche qui Francesco guardava all'esperienza parigina. Le ragazze abbandonate a se stesse lo preoccupava, per questo comprò una casetta nel Borgo S. Donato, un quartiere povero e malfamato, non lontano da Valdocco e dall'opera del Cottolengo. «Fu un piccolo seme gettato nel terreno buono - scrive suor Bairati - chi oggi vede tutto il complesso di opere che fiorirono attorno al piccolo stabile, non può che rimanere stupito ed ammirato». Sostanzialmente proprio qui ebbe inizio, quella che chiamano la «cittadella della donna».

Pertanto, suor Bairati, può scrivere: «ai giovani stava pensando Don Bosco, ai malati aveva provveduto il Santo Cottolengo; Francesco, nobile, ricco, imparentato con personaggi di spicco e con una rete di conoscenze e di amicizie ad alto livello, scese ad occuparsi delle lavoratrici più disprezzate, sfruttate, spesso mal retribuite e per queste ragioni esposte a mille pericoli».

 

Il dott. Mario Cecchetto, definisce Faà di Bruno, «l'apostolo della dignità della donna», per questo nacque l'opera di S. Zita, destinata a provvedere in maniera organica alle necessità materiali e morali della vasta classe lavoratrice delle donne di servizio.

 

«Scopo principale dell'Opera è di rispondere alla necessità concreta di dare ricovero temporaneo e gratuito alle lavoratrici domestiche che hanno perso il posto di lavoro, offrendo loro altresì opportunità ed occasioni di lavoro, cercate o provocate dall'Opera stessa, insomma casa rifugio ed ufficio di collocamento». (M. Cecchetto, « I cardini della felicità. Francesco Faà di Bruno nella Torino del XIX secolo», in Atti dell'incontro di studi, Teatro dell'Istituto Faà di Bruno, 29.3.2003, Torino)

 

In quell'epoca a Torino, le donne di servizio erano il 6% della popolazione cittadina, provenivano per la maggior parte dalle campagne, ed erano le meno protette, per lo più analfabete, inesperte ed ingenue, spesso diventavano vittime di soprusi ed insidie. Nell'Opera le donne venivano preparate spiritualmente e professionalmente, alfabetizzate per essere immesse nel lavoro.

 

Scrive Cecchetto: «nel rifugio le ospiti si mantenevano svolgendo i vari servizi, come in famiglia, nonché lavorando nella lavanderia modello, vera e propria intrapresa industriale, creata dal fondatore per sostenere l'Opera, ch'era priva di capitali[...]la fondazione s'ingrandì tanto da diventare come una cittadina tutta al femminile. Faà di Bruno era il generale in capo che, a mano a mano, che si presentavano delle necessità, vi faceva fronte, creando nuove classi, vale a dire gruppi omogenei, ognuno con propri locali, col proprio regolamento, orario e compiti appositi. Unico luogo dove ci si ritrovava insieme quotidianamente era la Chiesa».

 

Pertanto l'Opera S. Zita era strutturata per classi: la classe delle figlie di Santa Zita, quella delle pensionanti Signore di civile condizione. La classe delle Clarine, o figlie di santa Chiara. Accoglieva le povere giovani, con evidenti difetti fisici o con handicap. «Bisognava ammirare la straordinaria capacità di Faà di bruno di saper organizzare e valorizzare le capacità lavorative di tali persone […] Il fondatore ebbe sempre una particolare cura ed amorevolezza per queste giovani sfortunate e volel che fossero trattate, in specie per il vitto, meglio delle altre ospiti della casa».

 

Inoltre erano previste la Classe delle inferme e convalescenti, la classe delle pensionanti lavoratrici anziane: il beato garantiva fino al termine della loro vita un ambiente serena, servizi religiosi, vitto migliore e più abbondante che altrove. E' stato uno dei primi pensionati di categoria per anziane a Torino e in Italia.

 

Poi c'era la classe delle Educande interne ed esterne. Oratorio e patronato per le figlie di servizio. La classe delle tipografe, una novità per quei tempi, il Faà impiantò una tipografia tutta al femminile. La Classe delle allieve maestre ed istitutrici. 

 

A questo proposito fa notare Cecchetto che è prezioso e cruciale formare un esercito di insegnanti per i fanciulli nella nascente nuova Italia. Ormai ci si avviava verso la laicizzazione della scuola. Si stava passando da una scuola in mano agli ecclesiastici ad una scuola totalmente laica.

 

Nel 1868 Faà di Bruno rileva l'istituto magistrale femminile della SS. Ma Annunziata e lo trasferisce nella sua cittadella, con l'intento «di formare un piccolo esercito di insegnanti, per realizzare con esse la riconquista cristiana della società, a partire appunto dai fanciulli che queste sue maestre avrebbero educato nei vari comuni d'Italia. Come mirava a mettere una ragazza di servizio da lui formata in ogni famiglia per santificarla, così desiderava anche porre una sua maestra in ogni comune. Questa la strategia complessiva: santificare le famiglie con le sue domestiche, formare i fanciulli ai valori cristiani con le sue maestre».

 

Era un'opera di elevazione, di riscatto sociale per queste ragazze provenienti dalla campagne. Nel 1870 istituì anche un corso speciale per istitutrici, maestre cui dava «un'ulteriore specializzazione facendo loro apprendere, tra l'altro, le lingue inglese e francese e l'economia domestica al fine di prepararle all'impiego nell'educazione privata dei figli presso famiglie nobili o benestanti».

 

Il professore Faà di Bruno ha avuto sempre una speciale attenzione per la formazione delle sue allieve, facendogli apprendere anche discipline particolari come la fisica, meteorologia, chimica. Per loro preparò anche testi specifici di materie scientifiche, che poi furono adottati negli istituti magistrali e licei. «La sua pedagogia – scrive Cecchetto – è semplice e forte, centrata com'è sulla formazione integrale della maestra: cultura umanistica, cultura scientifica, cultura musicale, cultura morale e religiosa e, ultima ma non meno importante, cultura della 'manualità' integrate armonicamente».

 

Riflettendo con la volontaria che mi ha guidato nella visita al Museo, si concordava sull'opportunità di ricordare il beato Faà di Bruno, visto che ha lottato per tutta la sua vita a difesa e al riscatto delle donne più svantaggiate, come un grande e autentico emancipatore della donna. E perché non pensare di organizzare una manifestazione, un happening per evidenziare questo aspetto della vita del beato. Peraltro come sottolinea bene Bassignana, «l'emancipazione della donna passa anche attraverso la presa di conoscenza delle conquiste tecnico-scientifiche».

Un monumento «aere perennius», secondo suor Bairati, «più durevole del bronzo» fu la Congregazione religiosa femminile per garantire continuità alla sua Opera. Certo non era facile per un laico e per giunta maschio, fondare una congregazione religiosa di suore. Preparò il motto per le sue religiose: «Pregare, agire, soffrire». Anche il nome della Congregazione era nello stile del beato: Suore Minime del Suffragio. «All'origine della Congregazione c'è dell'eroismo. La vita delle prime postulanti fu assai dura, sia per le fatiche del lavoro, sia per l'austerità del regolamento nel quale possono veder riflesse le abitudini del militare ligio al dovere, esigente con se stesso e quindi anche con gli altri».

 

L'ambiente di vita era abbastanza austero, spoglio e povero,  il dormitorio per il piccolo drappello di novizie e postulanti era comune. La Provvidenza gli mandò la signorina Giovanna Gonella, che divenne poi la prima Superiora Generale della Congregazione.

Che cosa mancava a tutto questo grande impegno del «certosino laico»? Il primo a dirglielo è stato il vescovo di Mondovì:“Signor cavaliere, che manca a lei per essere prete? Si decida, ed in breve sarà ordinato”. Il 22 ottobre 1876, avviene la sospirata ordinazione.

 

Tra i suoi capolavori, uno resta ben visibile nel quartiere, mi riferisco alla bellissima Chiesa di N. S. del Suffragio e allo stupendo campanile, con il suo orologio, per far vedere l'ora a tutti i borghigiani di allora. «Quella dell'orologio fu un'iniziativa importante e, al tempo stesso rivelatrice della mentalità con la quale Faà di Bruno affrontava i problemi della società del suo tempo. Come ha ricordato Vittorio Messori, un orologio era allora un lusso per privilegiati: in attesa di una società in cui tutti potessero permettersi di acquistarlo, Faà di Bruno pensò di risolvere subito il problema». (Bassignana)

 

Aveva scelto un architetto per la costruzione ma poi continuò da solo, anche con l'aiuto delle suore. Il campanile merita essere ricordato, alto ben 83 metri, studiato nei minimi particolari, «da mettere in rilievo la sicurezza delle nozioni possedute da lui in fatto di fisica, meccanica e matematica». Ho avuto il privilegio di poter visitare il prestigioso monumento e sopratutto di poter apprezzare le spiegazioni sulle tecniche di costruzione da parte della competente guida signora Sasso. Certo al mio posto ci voleva un ingegnere per capire meglio lo straordinario lavoro di Francesco.

 

E comunque nonostante la mia incompetenza sulla materia, ho inteso anch'io l'importanza del lavoro svolto dallo scienziato, che, come fa notare Bassignana, il Faà di Bruno, della scienza aveva una concezione più «sociale» che speculativa. «L'interesse che Faà di Bruno nutre per la matematica e l'insegnamento è dello stesso tipo di quello che lo porterà alla costituzione dell'Opera di Santa Zita. La scienza, come la carità, non debbono essere fine a se stesse, ma trovano giustificazione solo se riescono a essere 'utili'».

 

Concludo con le riflessioni che traggo dal testo di Bassignana, «Forse, il lascito più importante che Francesco Faà di Bruno consegna al nostro tempo consiste proprio in questa sua straordinaria capacità di comporre i contrasti, di superare le contraddizioni personali in nome della fede. Una fede assoluta cristallina, ma al tempo stesso razionale, una fiducia in Dio che gli indicava sempre la strada giusta, l'obiettivo da perseguire». L'altro miracolo importante che ci ha lasciato, è come scrive Messori, «quello dell'unione, nella stessa persona, della mentalità più moderna e più aperta al vero progresso, con la fedeltà alla Tradizione cattolica più classica, con la scelta più radicale di un 'si' al Dio di Gesù Cristo e anche a quella Chiesa che, con il Sillabo e con altri pronunciamenti, era giudicata ormai del tutto fuori gioco, un relitto di epoche in via di estinzione».

 

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Articolo pubblicato il 13/06/2020