Al "Maometto" di Borgone di Susa: escursioni in periodo di Corona Virus

Un singolare sito archeologico posto in un’area che ha un toponimo insolito

In questo periodo è ancora importante evitare assembramenti e la frequentazione di luoghi molto affollati, suggeriamo quindi un’escursione particolarmente interessante, in un luogo sicuramente meno gremito di altri e dove è possibile ritrovare le tracce del nostro passato lontano.

A circa metà strada tra l’antica stazione romana ad Fines di Malano e Susa, nel comune di Borgone, troviamo un singolare sito archeologico posto in un’area che ha un toponimo insolito: Maometto. Toponimo originato dal nome tradizionalmente attribuito a un’edicola realizzata sulla pietra di uno sperone roccioso e raffigurante un personaggio che la vox populi riconobbe come il profeta musulmano, anche se è certamente più credibile che quel toponimo abbia origini di altro tipo.

L’ambiente è di quelli che affascinano: un bosco di acacie posto sul tracciato dell’antica strada reale tra Borgone e San Didero e adagiato alla base di una grande rupe che accentua la dimensione a tratti fiabesca del sito. Da un certo punto di vista, il Bosco del Maometto è un luogo un po’ “magico”, in cui i connotati archeologici spesso fumano e diventano dominio della leggenda. Per la tradizione romantica quel luogo fu un’area sacra in cui i druidi, i sacerdoti dei Celti, ebbero una sorta di tempio: si tratta di una versione che pur avendo una stretta relazione con la storia, spesso è in balia del mito e di credenze frutto della fantasia.

Come già indicato, il primo mistero sorge al cospetto di quel curioso toponimo: infatti, il “Maometto” in questione è stato individuato, su basi del tutto arbitrarie, nella scultura antropomorfa scolpita su un masso erratico che si trova nel fitto della boscaglia. Posta sul lato nord di un gigantesco masso franato dalla vicina parete montana, la scultura è costitui­ta da un bassorilievo figurato, scolpito a tre metri dal suolo. A forma di tempietto, misu­ra 80 x 65 cm.; reca sul frontone triangolare (18 x 65 cm) tracce di un’iscrizione latina su tre righe, ma di difficile interpretazione a causa della cor­rosione atmosferica.

Il tempietto si presenta con due colonnine laterali provviste di capitelli appena sbozzati, sormontati da un frontone lievemente aggettante. Nella nicchia interna è stata scolpita la figura antropomorfa stante, maschile, con una tunica corta e un mantello; le sue braccia sono sollevate verso l’alto e reggenti due oggetti difficili da identificare. Alla sua destra si trova un animale che sembrerebbe un cane.

Come detto, nel timpano dell’edicola si trovano tracce di un’iscrizione di non facile lettura: potrebbe essere la dedica a Silvano di un certo Lucius Vettius Avitus. Personaggio di cui si ha traccia anche in una dedica funeraria del II secolo d.C e attualmente conservata nel lapidario del Seminario vescovile di Susa. I paleografi che hanno studiato la dedica, sono propensi a confermare la datazione: quindi, in piena età imperiale, in quel luogo era presente un sito dedicato al dio Silvano, certamente un’area non secondaria e probabilmente caratterizzata da una notevole frequentazione.

L’ultima riga dell’iscrizione, quella in cui le parole risultano maggiorente leggibili, sembrerebbe confermare la funzione di ex-­voto svolto dal tempietto. Sono ancora visibili le lettere V M che pos­sono essere interpretate come V(OTUM) M(ERITO), da cui: V(otum) S(olvit) L(ibens) M(erito).

Risalire all’identificazione del personaggio scol­pito non è facile: come già indicato la tesi che ha trovato maggiore affermazione tra gli archeologi, è quella che indica nella figura una rappresentazione di Silvano; sono state rinvenute numerose dediche a questa divi­nità agreste, frequentemente ritratto insieme a un cane, soprattutto nelle regioni romane IX e XI dell’Italia settentrionale.

In passato però sono stati chiamati in causa anche altri soggetti: Diana cacciatri­ce in primis e poi addirittura Annibale Barca, che nel 218 a.C. forse passò da queste parti.

La scena dell’uomo con il cane potrebbe far pensare a un monumento fune­rario, considerato l’uso assai comune di ritrarre col defunto il compa­gno di caccia, o l’animale preferito. L’iscrizione dedicatoria del fronto­ne e il piedistallo sono però un ostacolo a questa interpretazione.

In base alle tracce dell’iscrizione si avanzò anche l’ipotesi del carat­tere dedicatorio dell’opera: giungendo all’identificazione della figura scolpita con il dio Vertumnus: di tradizione italica, personificazione del rinnovamento agricolo stagionale nella mitologia latina provinciale, spesso rappre­sentato in compagnia di un cane. C’è chi, osservando con attenzione l’iscrizione, nella terza riga crede di poter leggere le lettere ...E...TU...NUS.

Aggiungiamo che c’è chi vi ha riconosciuto Giove Dolicheno. Si tratta di una divinità di origine asiatica, il cui culto si sviluppò, intorno al II secolo dell’impero, specialmente nell’ambiente legionario e nei luoghi di frontiera romani. Giove Dolicheno era uno dei titoli con cui il Padre degli dèi era venerato presso i soldati, e tale culto si diffuse con gli spostamenti delle legioni nelle varie zone di confine.

Doliche era una cittadina della Commagene (paese ai confini fra la Siria romanizzata e la Persia sasanide) in cui era stato fondato un famosissimo tempio a Giove (detto perciò Dolicheno). L’ipotesi sem­bra avvalorata da alcuni ritrovamenti effettuati intorno al masso: una decina di monete, prevalentemente degli Antonini, e una piccola aquila di bron­zo del tipo che si ritrova comunemente sotto le immagini del Dolicheno. Il bassorilievo doveva essere in qualche modo in rapporto con una strada, dal momento che questi monumenti erano realizzati per essere visti dai viaggiatori.

Sulla base di queste acquisizioni, alcuni archeologi si sono spinti oltre, giungendo a fornire alcune interpretazioni generali della zona, caratterizzata da una strettoia dovuta ad un masso precipi­tato vicino alla parete rocciosa; la sommità del masso è stata così indicata come un punto strategico di osservazione e di controllo di un lungo tratto della Via delle Gallie. La strada romana correva infatti molto vicina al costone roccioso, poiché in quell’epoca il tratto di pianura, posto tra la base della rupe e il fiume, risultava più esiguo, infatti il letto della Dora era ben più esteso dell’attuale.

Contribuiscono a rendere ulteriormente affascinate il sito le tracce dell’attività umana in tempi lontani, che confermano l’antropizzazione del sito già dalla preistoria. Nei pressi di Borgone sono infatti presenti massi con coppelle nelle frazioni Piazzetta e Gandoglio.

Da sempre attrattiva e incipit per fantasiose interpretazioni, le due grosse macine di pietra sbalzate da un masso erratico e lasciate incompiute. Le figure, perfettamente cir­colari, hanno suscitato molte perplessità: difficile stabilire se la loro funzione originaria fosse in qualche modo legata a particolari cerimonie stagionali. Altrettanto problematica l’interpretazione dei diversi fori a nicchia sca­vati nella parete rocciosa non lontana dal masso. Sono buchi di gran­dezza variabile da 10 a 20 cm, tondeggianti, più larghi internamente: c’è chi sostiene che fossero destinati a ricevere offerte, secondo la consuetudine di origine prero­mana.

Chi però nelle tre macine ha voluto indivi­duare delle rappresentazioni solari esclusivamente connesse al sacrificio rituale, ha forse lavorato un po’ troppo di fantasia anche se, innegabilmente, la tesi è affascinante e ricca di stimolanti inter­pretazioni romanzesche.

A Borgone, anche se sono stati chiamati in causa “simboli solari” risalenti alla preistoria e legati ad atavici riti religiosi, il masso “sacro” sembrerebbe contenere semplici macine di pietra incompiute che, per un qualche motivo, non furono mai estratte dalla roccia.

Non va trascurato che il commercio delle mole per cereali, importante per l'economia delle nostre regioni lungo un arco di parecchi secoli, è stato bene evidenziato dagli studiosi, con importanti prove archivistiche.

Come ora sappiamo, anche Borgone ebbe un’attività estrattiva legata ad alcune cave che sorgevano proprio nella zona del Bosco del Maometto, che però non hanno lasciato evidenti tracce nelle fonti, forse anche per il carattere familiare dell’attività lavorativa coinvolta nell’estrazione dei manufatti.

Più concreta, poiché documentata da tracce ma­teriali evidenti, è la scoperta di alcune ossa uma­ne ritrovate nei pressi della roccia del Maometto.

Il reperto più interessante è un omero umano se­gnato da una profonda frattura che, all’indagine antropologica e anatomopatologica, dimostra la man­canza di ogni rigenerazione ossea, ciò pone in rilievo - essendo da escludere danneggiamenti in occa­sione del ritrovamento - che il momento in cui av­venne la frattura coincise con quello della mor­te. Sulla datazione gli studiosi non sono d’ac­cordo; in generale si pensa che si tratti di resti di 3000-3500 anni fa.

La parte superiore del masso è ricoperta da uno strato di terreno su cui crescono arbusti e specie erbacee non più comuni nella zona. È proprio qui, nel punto centrale di questa piattaforma, che venne in luce la sepoltura di cui abbiamo già parlato: presentava lo scheletro deposto nella nuda terra, senza coper­tura, ma con una fila di lastroni per ogni lato, paralleli alla lunghezza del corpo.

Le radiografie dimostrano una netta linea di frattura, che ha permesso la precisa ricomposizione dei frammenti. D’altra parte la mancanza assoluta di segni di rigenerazione ossea da parte dei monconi dimostra, essendo da escludere danneggiamenti in occasione del ritrovamento, che il momento in cui avvenne la frattura coincise con quello della morte del soggetto.

Ancora da chiarire la funzione delle strutture murarie individuate nell’area limitrofa, a occidente del roccione del Maometto: costruite a secco con pietre di dimensioni e forme alquanto irregolari, vi è chi le ritiene opere del II millennio a.C. Poco distante sono stati rinvenuti anche frammenti ceramici e tegole di età romana, vetri, lucerne, bronzi, monete di II-III d.C. e un tratto di strada.

 

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Articolo pubblicato il 27/06/2020