I conti di Conte nell’Europa dei 27

La maratona di Bruxelles per giungere ad una soluzione, che ridesse vitalità alla economia agonizzante dell’Europa sfiancata da una epidemia esiziale, è finita a notte fonda del quarto giorno di intensi contrasti tra i rappresentanti dei 27 Governi dell’Unione. 

Ursula von der Leyen, col supporto di Angela Merkel e di Emmanuel Macron, aveva proposto un piano di salvataggio da 750 miliardi di euro, di cui 500 da attribuire a fondo perduto agli Stati aderenti all’UE e 250 da concedere agli stessi a tassi d’interesse irrisori: una cifra considerevole, ma da alcuni ritenuta insufficiente. 

Si sapeva che ci sarebbero stati duri scontri per la approvazione di questo RECOVERY PLAN, detto anche   RECOVERY FUND o, con termini più accattivanti, NEXT GENERETION EU; e così è stato. 

Guidati da Mark Rutte, Primo ministro olandese, ostico come la lingua della sua nazione, hanno fatto la voce grossa i “frugal four”: Austria, Olanda (Paesi bassi), Danimarca e Svezia, cui si è aggiunta per strada la Finlandia. 

A questi Paesi frugali, risparmiosi, infatti non andava giù di far regali agli altri, considerati spendaccioni, ed ai loro evasori fiscali. 

A chi si lamentava, dimentico d’aver lucrato per anni e di continuare a lucrare con una politica attrattiva dei profitti, sottratti con blandizie di risparmi fiscali, alla imposizione di altri Paesi UE, il Premier del Governo italiano ha risposto a muso duro anche perché l’Italia, secondo il presidente dell’Antitrust Roberto Rustichelli, a causa della concorrenza fiscale sleale a livello europeo, perde la possibilità di tassare oltre 23 miliardi  di dollari di profitti, subendo  un danno stimato tra i 5 e gli 8 miliardi di dollari l’anno. 

L’ atteggiamento risoluto di Conte a Bruxelles è stato apprezzato in patria, dove però era stato contestato da alcuni, pure aspramente, per i suoi tanti DPCM che, nel periodo del lock down, avevano prodotto poco e poche decisioni. 

Inoltre, per i suoi molti discorsi sulle reti televisive, gli era stata addebitata anche la troppa eloquenza oratoria, ritenuta spesso inconcludente. 

Ma, proprio il suo eloquio, che ha mostrato  anche toni di  intransigenza, e le sue competenze di legale di rango, hanno bloccato le richieste, contrarie alle norme dei trattati costitutivi e di funzionamento dell’Unione Europea, di un Rutte arrogante nel pretendere il diritto di veto di un solo Stato sulle decisioni riguardanti la concessione dei fondi UE agli Stati membri, in caso di ritenuta inadeguatezza di qualcuno dei loro piani presentati  per la ripresa e la resilienza. 

Sovvenzioni e prestiti, infatti, sarebbero stati non liberamente spendibili, come poi compiutamente concertato, ma ancorati alla creazione di posti di lavoro ed a riforme strutturali quali digitalizzazione, giustizia, opere pubbliche, interventi a tutela del clima. 

L’aspra polemica è comunque rientrata con alcune concessioni e soprattutto con l’accettazione di una diversa modulazione dei 750 miliardi del piano di salvataggio proposto dalla presidente della Commissione europea: 390 di sovvenzioni a fondo perduto (“grants”) e 360 a prestito (“loans”).

A lavori europei conclusi, la fiducia di Conte presso gli Italiani è salita al 49 %. 

Ma il brutto che era alle spalle, dopo un raggio improvviso di sole, adesso è tutto davanti. 

L’accordo dovrà innanzitutto essere approvato dal Parlamento Europeo e poi gli Stati membri UE dovranno ratificarlo a livello nazionale. 

La BCE, per raccogliere la liquidità necessaria a finanziare la ripresa dovrà indebitarsi a nome dell’Europa collocando sul mercato una corrispondente quantità di “recovery bond”, cioè di specifiche obbligazioni, che dovrà rimborsare nel tempo remunerando gli obbligazionisti con adeguati interessi. 

Gli Stati UE dovranno presentare articolati piani di utilizzo delle risorse di cui potranno godere a fondo perduto e di quelle che potranno ricevere a prestito e che dovranno poi restituire con interessi, pur se modesti. 

Le sovvenzioni saranno erogate solo in proporzione allo stato di avanzamento dei programmi presentati e degli obbiettivi raggiunti. 

Il Consiglio europeo, a maggioranza qualificata, controllerà che i programmi presentati dagli Stati UE siano corrispondenti alle direttive concordate e, quindi, che le spese vengano fatte solo per le finalità autorizzate e nei tempi prescritti, che prevedono di dover impegnare i fondi entro il 31 dicembre 2023 e spenderli entro tre anni, pena la loro perdita. 

I pagamenti potranno essere bloccati, per gli accertamenti necessari, nel caso in cui uno Stato utilizzi il così detto “freno di emergenza”, cioè denunci al Consiglio europeo il mancato rispetto degli impegni presi da un partner dell’UE nell’utilizzo dei fondi. 

È chiaro, infatti, che i soldi di tutti devono essere utilizzati per rispondere in modo unitario alla crisi di tutti e per investire nel futuro di tutti nell’interesse di tutti, non per scopi diversi.
Secondo le simulazioni che arrivano dal Ministro dell’Economia Roberto Gualtieri, 81 miliardi e 400 milioni come “grants” e 127 miliardi come “loans” spetterebbero all’Italia, che ha fatto la part del leone; ma tutti i partners EU hanno riconosciuto che è stata la più duramente colpita dai disagi della pandemia ancora perdurante. 

Ma il summit europeo si è chiuso non con l’immediata immissione di  questa liquidità nelle casse vuote dell’Italia, dove alta si è levata in questi giorni la protesta dei commercialisti, con i loro assistiti, per la mancata proroga di almeno una parte delle 246 scadenze fiscali da essi previste a luglio. 

Da Bruxelles è giunto solo un confortante messaggio di aspettativa dei tanti soldi, che potrebbero arrivare a partire, forse, da fine primavera prossima e che invece servono subito. 

Da subito, l’Italia potrebbe utilizzare solo una somma di circa 37 miliardi di euro posta a disposizione dal MES, il Meccanismo Europeo di Stabilità, conosciuto anche come Fondo salva-Stati; sarebbe una manna per risanare la sanità, che nel recente passato ha mostrato tutte le sue carenze e che necessita di radicali interventi strutturali. 

Nel nostro Governo, il PD questi soldi li vorrebbe; i 5 Stelle, no, in linea con una vecchia loro risoluzione, presa prima che cambiassero le regole di erogazione dei fondi MES. 

Il nostro Premier continua a dire che non c’è interesse a questo prestito, pur se di immediata utilizzazione, da restituire a lungo termine, con interessi più che simbolici e, ora, senza le condizionalità che un tempo ne limitavano giustamente l’utilizzo. 

Ma, in fondo, egli si rende conto che è “cosa buona e giusta” questo prestito che sa di regalia e forse sarebbe anche “fonte di salvezza” per il suo Paese. 

Però, proprio perché son loro che lo hanno avviato alla politica col portarlo addirittura direttamente alla presidenza del Governo, pare che Conte non voglia rompere con i 5 Stelle. 

Ma, se si rompe lui, finirà per dire sì al MES, a costo di rimetterci la poltrona: tanto, sa che il suo tempo volge al termine e, promosso  sul campo nel ruolo di politico, potrebbe continuare a restare in questo campo, avendo imparato qualcosa anche da Matteo Renzi, che ha monetizzato la  sua esperienza di  Presidente del Consiglio fondando “Italia viva”, un partito tutto suo, piccolo ma non tanto, visto il posto che occupa nella attuale compagine governativa. 

Da Conte, che ha rotto con Salvini per continuare a stare con Di Maio, potremmo aspettarci che rompa anche con Di Maio, per continuare a stare con Zingaretti. 

È la politica, gente! Si vales, valeo.

armeno.nardini@bno.eu

 

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Articolo pubblicato il 27/07/2020