L’abito non fa il monaco, ma il tatuaggio sì!

Una bizzarra affermazione non del tutto campata in aria.

I tatuaggi sono entrati a far parte del costume collettivo, come complementi estetico-comunicativi normali, in tempi relativamente recenti.

Uno sdoganamento di pratiche rituali, appena un gradino al di sotto delle cicatrici o delle mutilazioni, in precedenza riservate a ben precise ed esclusive persone o gruppi, come segni distintivi di esperienze di vita particolari, esaltanti, traumatiche, uniche.

 

Alcuni tatuaggi sono vere e proprie opere d’arte; altri descrivono un programma di vita; altri ricordano, come un marchio a fuoco, un evento indelebile impresso nel ricordo e nella coscienza. Tatuaggi monocolori ed altri policromi, transitori o permanenti, visibili o seminascosti, escono timidamente da maniche e scollature o invadono prorompenti l’osservatore ovunque esso posi lo sguardo. Pochi sono invisibili, rivelati solo a chi si avventura fino a scoprirli.

 

Universi di significati racchiusi simbolicamente in pochi tratti o in disegni articolati che coprono quasi per intero la superficie del corpo.

 

Tatuaggi come mediatori tra l’interno e l’esterno del corpo, come latori di ciò che non si riesce a comunicare diversamente, o più semplicemente, con quell’organo così importante attraverso il quale entriamo in relazione con l’ambiente circostante.

 

Messaggi espressivi di stati d’animo impossibili da spiegare in poche parole, oppure semplici invocazioni senza suono di nomi urlati nell’aria dai movimenti gestuali e corporei, da un insieme fisiologico di necessità vitali.

 

Tatuaggi distintivi di una specifica personalità ed altri omologanti nello spirito del gruppo di appartenenza.

 

Tatuaggi che richiedono un tributo in dolore quando li si vuole integrare nel proprio corpo ed una buona dose di accettazione e sopportazione quando, cessata la loro originaria funzione, li si voglia cancellare, modificare o tenere per sempre.

 

Tutte cose note che fanno ormai parte degli attuali costumi.

 

Ma non è così noto quali modificazioni profonde implichi tale pratica al livello funzionale dell’intero sistema umano.

 

Una di esse è il risveglio di programmi dormienti nel subconscio, come se si trattasse di una chiave, un codice di attivazione funzionante come un mantra ripetuto senza interruzione per tutto il tempo della sua permanenza.

 

Un’altra è la mediazione che svolge rispetto alle informazioni che provengono direttamente dalla luce solare. In questo caso alcune di esse, che non riescono a superare la barriera posta dal segno opaco, vengono inibite e non riescono a raggiungere il loro bersaglio. Una funzione ben conosciuta da coloro che ideavano le vetrate delle finestre delle cattedrali. Essi facevano in modo che solo alcuni dei messaggi contenuti nella luce, filtrati attraverso un particolare disegno, fossero autorizzati ad accedere al loro interno per svolgere il compito di orientare precisamente i fedeli superando le barriere dei loro sensi e coscienza. 

 

Non è questione di giudicare se sia o no una buona pratica, poiché si tratta dell’esercizio di “una certa qual libertà individuale” lasciata alla coscienza del singolo, ma solo di richiamare l’attenzione verso alcuni suoi aspetti meno conosciuti che possono incidere in modo molto potente e preciso sull’intero organismo e sulle sue possibilità ideative ed espressivo-comportamentali.

 

foto e testo

pietro cartella

 

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Articolo pubblicato il 01/08/2020