Un anniversario dimenticato: il summit di Camp David vent’anni dopo

Gli artefici dei continui tentativi di negoziare sulla falsariga di Oslo preferiscono ignorare il vertice del luglio 2000, fatto fallire da Arafat e naufragato nel sangue dell’intifada delle stragi

Un anniversario che non celebra nessuno. Vent’anni fa il presidente Bill Clinton riceveva il primo ministro israeliano Ehud Barak e il leader palestinese Yasser Arafat per un vertice di pace a Camp David. Col senno di poi, anche i veterani dell’amministrazione Clinton comprendono che si trattò di un atto di monumentale follia. Come ha scritto di recente Aaron David Miller, ex consigliere del Dipartimento di stato per il processo di pace in Medio Oriente, quel tentativo era condannato all’insuccesso ancor prima di iniziare.

 

Il problema è che anche coloro che, a posteriori, hanno riconosciuto di essersi sbagliati si aggrappano tuttora all’illusione che una diplomazia più accorta e altri leader americani, israeliani e palestinesi potrebbero ancora ottenere un risultato diverso. Anche coloro che si sforzano di essere autocritici riguardo all’essere rimasti, come ha scritto Miller, “totalmente disorientati” a Camp David nel luglio 2000, fanno i conti solo parzialmente con il fatto che vi sono dei problemi che, semplicemente, non hanno soluzione.

 

Quel che è peggio, alcuni di coloro che ad essi sono succeduti, come l’alto consigliere della Casa Bianca e genero del presidente, Jared Kushner, incaricato da Donald Trump per gli sforzi di pace in Medio Oriente, sembrano non aver appreso interamente la vera lezione del fiasco di Camp David, sebbene abbiano cercato di fare le cose meglio di quanto avessero fatto i loro predecessori.

 

A differenza del quadro in cui era maturata la firma degli Accordi di Oslo sette anni prima, le circostanze che portarono agli eventi del luglio 2000 a Camo David non vengono più molto analizzate. La famosa foto sul prato della Casa Bianca del settembre 1993 viene tuttora celebrata da molti come un successo storico, nonostante le sue catastrofiche conseguenze. Ma la conclusione ignominiosa del vertice del 2000 è stata per lo più depennata dalla memoria orwelliana degli establishment di politica estera e dei principali mass-media. Non hanno nessuna voglia di trarre le appropriate conclusioni da quegli eventi perché quel summit di fatto fece a pezzi l’intero concetto che stava alla base del processo di Oslo, da cui aveva preso le mosse basandosi su un mito.

 

L’ipotesi di tutti coloro che erano coinvolti in quel tentativo era che il divario tra israeliani e palestinesi potesse essere colmato da compromessi, per quanto dolorosi, e da un’azione diplomatica razionale e paziente basata sullo sviluppo di relazioni. Erano tutti convinti che, con gli israeliani disposti a fare concessioni tangibili in termini di territorio pur mettendo in pericolo la loro sicurezza, e i palestinesi disposti davvero ad accettare che finalmente la lunga guerra contro il sionismo fosse finita, era possibile che due stati coesistessero in pace uno accanto all’altro. In quell’estate del 2000, diversi osservatori attenti avevano già capito che non era questa l’intenzione dei palestinesi.

 

Arafat non era interessato a combattere i terroristi che minacciavano la pace, come invece aveva sperato il primo ministro israeliano assassinato Yitzhak Rabin. Arafat continuava a progettare e finanziare il terrorismo, mentre i governi americano e israeliano ignoravano o nascondevano la verità sulle sue azioni e sul suo mancato rispetto dei termini degli accordi, perché pensavano che non farlo avrebbe danneggiato la causa della pace.

 

Dall’altra parte, Barak aveva fretta. Reduce dal tentativo fallito di cedere le alture del Golan al regime siriano di Hafez Assad (un colpo di fortuna per Israele, considerando il caos e lo spaventoso spargimento di sangue che avrebbero distrutto quel paese non molti anni dopo), Barak si era rivolto ad Arafat. Gettando al vento ogni cautela, lasciò cadere le linee rosse che avevano guidato sia Rabin che Benjamin Netanyahu (che spesso viene erroneamente accusato del fallimento di un processo di pace che in realtà cercò di portare avanti durante il suo primo mandato da primo ministro nel 1996-99): Barak offrì di dividere Gerusalemme e consegnare quasi tutta la Cisgiordania e la striscia di Gaza alla creazione di uno stato palestinese. Ma nemmeno questo gesto grandioso bastò per convincere Arafat.

 

Il vecchio terrorista lasciò sdegnosamente cadere un’offerta che gli dava praticamente tutto ciò che i sostenitori della causa palestinese dicevano (a ancora dicono) di volere. Due mesi dopo, convinto che Barak fosse abbastanza indebolito e che una serie di sanguinosi attentati contro gli israeliani avrebbe indotto Israele ad accettare ulteriori concessioni autodistruttive, lanciò una guerra di logoramento terroristica nota come seconda intifada.

 

Quel conflitto traumatico, che costò la vita di oltre mille israeliani e molti più palestinesi, mandò a picco qualsiasi residuo sostegno al processo di Oslo: l’intifada delle stragi di civili creò un’opinione ampiamente condivisa tra gli israeliani, ulteriormente rafforzata dai disastrosi risultati del ritiro dell’allora primo ministro Ariel Sharon da Gaza nel 2005 sfociato nella nascita di uno staterello terroristico gestito da Hamas, e dai rifiuti di negoziare in buona fede del successore di Arafat, Abu Mazen: l’opinione condivisa che la pace è irraggiungibile, per lo meno nel futuro prevedibile.

 

Come oggi Miller ammette, il vertice  di Camp David non aveva nessuno degli elementi necessari per arrivare a buon fine. E ha anche ragione di sottolineare quanto fosse sbagliata la convinzione di Clinton che provare e fallire fosse meglio che non provare nemmeno: le conseguenze del fallimento furono pagate col sangue di quelli trucidati nell’intifada di Arafat. Ciononostante, Miller sostiene ancora l’idea illusoria che una maggiore pressione americana sullo stato ebraico, unita a una serie di parametri per un accordo che non desse scampo agli israeliani su Gerusalemme e altre questioni intrattabili, avrebbero potuto fare la differenza.

 

Miller disdegna gli sforzi dell’amministrazione Trump, accusandola di essere troppo vicina a Israele. Ma sebbene Kushner cerchi apparentemente di evitare di commettere gli stessi errori di Clinton, non sembra aver compreso appieno come mai anche la sua visione più realistica “Prosperità per la pace” non ha più chance di generare un accordo di quante ne avesse il summit a Camp David del luglio 2000. In un’intervista a Newsweek, Kushner ha mostrato a sua volta di coltivare illusioni: ritiene che la chiave della pace sia quella di avvicinare gli stati arabi a Israele. Cosa senz’altro positiva di per sé, ma come ogni altra ricetta magica per un accordo di pace è destinata a fallire perché i palestinesi semplicemente non sono interessati a un accordo di pace.

 

La lezione che va tratta dal vertice di Camp David consiste nel capire che anche la migliore azione diplomatica, la migliore pianificazione e il migliore aiuto da parte di soggetti esterni non saranno mai sufficienti. Finché i palestinesi non rinunceranno alla loro visione di un mondo senza lo stato nazionale ebraico d’Israele, nessun processo di pace avrà mai successo indipendentemente da quanto razionalmente e saggiamente venga condotto. La maggior parte degli israeliani capisce bene questa amara verità e ha adattato le proprie aspettative di conseguenza.

 

C’è da sperare che i futuri governi americani, incluso quello eventualmente guidato dall’ex vicepresidente Joe Biden che sarà probabilmente composto da veterani delle amministrazioni Clinton e Obama, saranno in grado di capire che, senza un cambiamento radicale nella cultura politica palestinese, ulteriori negoziati sono semplicemente una perdita del tempo di tutti.

 

Da: jns.org 

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Articolo pubblicato il 02/08/2020