Centenario - La Lezione Etica E Politica Di Enrico De Nicola
De Nicola, Vittorio Emanuele III e Mussolini (foto di repertorio)

Monarchico, Liberale, Napoletano (di Aldo A. Mola)

L’interrogativo è antico: il Paese è migliore di chi lo rappresenta o viceversa? Si stava meglio quando si stava peggio? Per uscire dal dubbio, giova confrontare lo spettacolo offerto da tanti parlamentari odierni con quelli del buon tempo antico. Non è patetica nostalgia da laudatores temporis acti, una fuga nel passato per eludere i mutamenti intervenuti negli anni recenti, la loro presunta necessità (o fatalità) e così sottrarsi all’obbligo di fare i conti col divenire. La domanda è un’altra: come mai in tempi neppure tanto remoti e in circostanze niente affatto facili, l’Italia ebbe una dirigenza di statura europea, invidiabile per preparazione, dedizione e onestà personale?

È questione di meridiani e di paralleli? O di natura politica? Di strumenti normativi atti a formare una classe dirigente che non tragga idee solo dagli album di Topolino, come sarcasticamente avvertito da Ernesto Galli della Loggia sulla scia di Sabino Cassese, Stefano Folli e altri costituzionalisti e politologi senza paraocchi partitici né pregiudiziali ideologiche.

Il confronto tra presente e passato è indispensabile a cospetto di un presidente del Consiglio, il prof. Giuseppe Conte, insediato nei giorni turbolenti di richieste di “incriminazione” del presidente della Repubblica, di gesti scomposti, di un “accordo per il governo” tra Lega e M5S dai contenuti anche incostituzionali, senza che dal Colle arrivassero i moniti necessari a disinnescarne la pericolosità.

 

Un giureconsulto di talento “prestato” alla politica

Tra i tanti possibili modelli della dirigenza del tempo che fu (e che auspichiamo torni, come sempre è accaduto, sia pure a distanza di secoli) proponiamo Enrico De Nicola, che giusto cent’anni fa, il 26 giugno 1920, fu eletto presidente della Camera dei deputati. Pochi giorni prima, il presidente del Consiglio, Giovanni Giolitti, lo invitò a casa sua, un appartamento in affitto a Roma, affacciato su via Cavour, non lontano dalla Stazione Termini. Gli lesse l’elenco dei ministri del governo che stava per presentare alla Camera. Comprendeva liberali di varia ascrizione, democratici, ex socialisti riformisti, come Ivanoe Bonomi, ministro della Guerra, e cattolici, non perché eletti nelle file del Partito popolare italiano capeggiato da don Luigi Sturzo (“prete intrigante” a giudizio dello Statista) ma perché patrioti. Non gli disse altro. La sorpresa venne all’apertura della sessione parlamentare. Su impulso di Giolitti De Nicola fu eletto presidente con 236 preferenze su 374 presenti. Un plebiscito, visto che gli mancarono solo i suffragi dei socialisti e dei repubblicani, cioè di partii anti-sistema. De Nicola contava appena 42 anni. Pochi, all’epoca, per una carica così alta. Ma alle spalle aveva già un lungo e prestigioso cursus honorum e professionale.

Nato a Napoli il 9 novembre 1877, si laureò in legge a 19 anni. Iscritto per concorso all’albo degli avvocati dal 1898, si affermò rapidamente. Molti penalisti dell’epoca erano famosi per le perorazioni infiorate di lenocini retorici, commentate dal pubblico con tanti “Come ha parlato bene!” ma stroncate dalle corti che ne condannavano i clienti. De Nicola spiccò invece per sobrietà. Andava al punto. Era un eccellente “tecnico” del diritto, nella miglior tradizione della Scuola giuridica partenopea: Enrico Pessina, Giorgio Arcoleo, Gennaro Marciano, Gaspare Colosimo (tutti politici di rango) e Pietro Rosano. Questi mostrò la sua tempra d’acciaio quando, appena nominato ministro nel secondo governo Giolitti, divenne bersaglio di una campagna scandalistica su un suo congiunto. Nel timore che la diffamazione potesse coinvolgerlo e da lui arrivare a colpire Giolitti, che dieci anni prima era stato ingiustamente travolto dallo “scandalo della Banca Romana” (un pasticcio non ancora risolto dalla storiografia), mandò una lettera allo Statista pregandolo di salutare per lui tutti i colleghi “di una settimana” e di averlo sempre caro e si sparò. Era il 9 novembre 1903. Aveva 55 anni e una splendida carriera dinnanzi a sé. Uno stoico.

Nel 1907 De Nicola fu eletto consigliere comunale di Napoli. La città doveva risalire la china, alla luce dell’Inchiesta condotta dalla Commissione presieduta dal senatore Giuseppe Saredo al quale Giolitti conferì un mandato preciso: non guardare in faccia nessuno, non cedere ad alcuna pressione. Come attestano i suoi Atti, ripubblicati dall’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici (Napoli, Palazzo Serra di Cassano, via Monte di Dio 14), ne scaturì il ritratto veridico della corruzione dilagante e dei possibili rimedi: poiché la camorra era opera dell’uomo, altri uomini potevano sconfiggerla. Nel 1909 il trentaduenne De Nicola fu eletto deputato dal collegio di Afragola. Prevalse sul deputato uscente, Luigi Simeoni, che si presentava come giolittiano. Ma lo Statista non badava alle etichette, bensì alla sostanza. In Aula il neodeputato parlò solo su questioni di sua sicura competenza. Interventi brevi, limpidi apprezzati da Giolitti. A un neoeletto che gli domandò come dovesse condursi lo Statista rispose che doveva alzarsi, dire quello che doveva e mettersi a sedere. Erano finiti i tempi nei quali i singoli interventi a volte duravano molte ore, persino in più sedute. I lavori parlamentari erano “sgrossati” da Uffici e Commissioni, dalle relazioni di presentazione dei disegni di legge e dagli allegati di accompagnamento. In Aula bisognava andare al dunque. Il 31 maggio 1912 De Nicola si fece apprezzare per l’intervento sulla riforma del codice di procedura penale: un tema che non consentiva chiacchiere. Il 29 ottobre dell’anno seguente, quando si sperimentò il suffragio quasi universale maschile, ma sempre in collegi uninominali a doppio turno, fu confermato con votazione lusinghiera.

Il 27 novembre Giolitti lo volle sottosegretario al ministero delle Colonie, di recentissima costituzione. Lo statista assegnò il dicastero a Pietro Bertolini, che lo aveva affiancato nei mesi difficili della guerra contro l’impero turco per la sovranità dell’Italia sulla Libia e per la liberazione di Rodi e del Dodecanneso. Sennonché il titolare di Poste e Telegrafi, Teobaldo Calissano, morì d’improvviso mentre pronunciava un discorso elettorale nel suo collegio di Alba. Quel tragico destino mutò l’assegnazione dei titolari dei ministeri ai quali Giolitti teneva: Gaspare Colosimo fu promosso da sottosegretario alle Colonie a titolare delle Poste, sino a quel momento di Calissano, e al suo posto il 27 novembre venne chiamato il trentacinquenne De Nicola. L’incarico era delicatissimo perché bisognava dare un ordinamento giuridico d’avanguardia alla nuova colonia, proprio per mostrare al mondo la modernità del “modello italiano”, altra cosa rispetto alla colonizzazione ottocentesca ancora praticata da Portogallo, Spagna, Paesi Bassi e dal pessimo Belgio.  

De Nicola dette ottima prova. Come Giolitti, il conterraneo Benedetto Croce, il vicepresidente del Senato Antonio Cefaly, calabrese, e altri insigni meridionali anch’egli fu contrario all’intervento dell’Italia nella Grande Guerra. Se destinate alle armi, le risorse del Paese sarebbero state sottratte alla lunga e saggia opera di sviluppo delle regioni più arretrate a tutto danno della vera unità nazionale e delle istituzioni. Nel Mezzogiorno sarebbero tornati a soffiare i venti della dissidenza e della sfiducia nello Stato, contro la monarchia, che contava nemici mortali antichi e nuovi. Nondimeno, quando l’Italia entrò in guerra, egli ne sostenne lealmente l’impegno sino alla Vittoria. Non per caso Vittorio Emanuele Orlando lo volle sottosegretario al Tesoro all’indomani del disastro di Caporetto.

 

Al di sopra della mischia

Nelle elezioni del 16 novembre 1919, svolte con la proporzionale, De Nicola fu rieletto nella circoscrizione Campania con il più alto numero di preferenze tra i candidati liberali.

Da presidente della Camera, in linea con Giolitti, mirò ad arginare gli opposti estremismi, se non nel Paese, preda della scioperomania dell’estrema sinistra e poi dell’uso spregiudicato delle “squadre” da parte di agrari e, dopo l’occupazione delle fabbriche (settembre 1920), anche da parte di industriali, almeno alla Camera. Ne nacque il “patto di pacificazione” sottoscritto nella sala del Consiglio dei ministri dai rappresentanti dei fascisti, dei socialisti e dei sindacati “di sinistra Morgari, Baldesi e Mussolini, l’ex socialrivoluzionario che si attirò gli strali di Roberto Farinacci e Dino Gradi: Chi ha tradito, tradirà”. A spianare la via al patto, d’intesa con De Nicola, furono che il social-utopista Tito Zaniboni (nessuna prova che fosse affiliato al Grande Oriente d’Italia) e il fascista Giacomo Acerbo, massone della Gran Loggia d’Italia. De Nicola si valse anche della abile mediazione del frusinate Achille Visocchi, già suo collega al Tesoro e poi ministro dell’Agricoltura.

L’esercizio della delicatissima carica lo sottrasse alla professione forense, sua unica fonte di reddito. All’epoca, va ricordato, i deputati ricevevano una modesta indennità e viaggiavano gratis sulle ferrovie dello Stato, senza mai abusarne. Quando una volta scoprì che alla figlia Enrichetta era stato riservato un posto prepagato in treno, Giolitti lo fece cancellare perché, osservò rabbuiato, “non esiste la carica di figlia del presidente del Consiglio”. Severo con sé come con i colleghi, De Nicola conduceva vita ascetica. Concorse a innovare i lavori parlamentari valorizzando le Commissioni parlamentari, formate non più per sorteggio ma su indicazione dei gruppi parlamentari. Esse ebbero anche il potere di chiedere la convocazione della Camera. Se questo fosse stato attivato nel settembre-ottobre 1922, come reiteratamente chiesto da Vittorio Emanuele III al presidente del Consiglio Luigi Facta, la crisi politica sarebbe stata subito instradata sui binari della parlamentarizzazione. Ne scrisse appassionatamente Mario Viana in “Monarchia e fascismo” (1954). La cosiddetta “marcia su Roma” non sarebbe stata neppure minacciata. Il 24 ottobre 1922 De Nicola inviò un telegramma alla riunione dei fascisti al Teatro San Carlo di Napoli: un messaggio di prammatica, altra cosa rispetto a Benedetto Croce che andò di persona ad assistere ai lavori con la curiosità dello storico dell’Italia liberale, attratto dallo “spettacolo”.

All’indomani dell’insediamento del governo di coalizione statutaria presieduto da Mussolini (31 ottobre 1922), De Nicola fece ampia apertura di credito al pari di altri liberali, quali Salandra, Orlando e lo stesso Giolitti. Nel 1924 fu candidato nella Lista nazionale che conquistò due terzi dei seggi perché ottenne circa il 66% dei suffragi. Li avrebbe avuti anche senza la nuova legge elettorale, che li assegnava al partito che avesse raggiunto il 25% dei voti (Mussolini non credeva al successo straripante, frutto degli umori dell’elettorato già allora vagante dall’uno all’altro schieramento).

All’ultimo giorno De Nicola si sfilò e non pronunciò l’atteso discorso, il cui testo, però, uscì a stampa. A suo avviso il fascismo era sorto “come protesta contro un eccesso di violenza sovvertitrice della vita nazionale” e si era affermato “come protesta contro un eccesso di instabilità e di atonia dei governi”. A suo avviso, con il varo del governo Mussolini il re aveva risparmiato all’Italia la guerra civile. Da presidente del Consiglio il duce aveva concesso molto al partito, ma a parole più che ne fatti. Mirò invece a “ottenere dal Parlamento la legalizzazione del fatto compiuto”.

Vita appartata

La svolta venne col delitto Matteotti (10 giugno 1924) e col discorso del 3 gennaio 1925. Mussolini, pur negando ogni coinvolgimento nella morte del deputato socialista, assunse la responsabilità politica della “rivoluzione fascista”. Benché convalidato, De Nicola non prestò giuramento e non si presentò mai in aula. Il 2 marzo 1929, alla vigilia delle elezioni che il 24 segnarono il trionfo del regime di partito unico, anche per l’avvenuta Conciliazione tra regno d’Italia e Stato del Vaticano (11 febbraio 1929), egli fu creato senatore. Fu uno dei circa 130 patres vitalizi nominati in poche settimane: liberali, cattolici, democratici, ex socialriformisti e, naturalmente, fascisti, nazionalisti, militari, diplomatici..., uomini dello Stato non di partito.

Non frequentò le sedute della Camera Alta ma presiedette la commissione ministeriale per la previdenza e l’assistenza forense che approntò la legge 13 aprile 1933, a beneficio di tanti avvocati in stato di bisogno.

 

Il grande Traghettatore

De Nicola ebbe ruolo fondamentale dieci anni dopo, quando escogitò il trasferimento dei poteri regi da Vittorio Emanuele III al figlio, Umberto principe di Piemonte, in veste di Luogotenente del regno: soluzione obtorto collo accettata dal re il 20 febbraio 1944 e infine attuata il 5 giugno 1944 sotto incalzante pressione degli anglo-americani e dei partiti antimonarchici al potere sin dal terzo ministero Badoglio e poi nei governi presieduti da Bonomi, Ferruccio Parri (partito d’azione) e Alcide De Gasperi (democrazia cristiana). Estraneo a maneggi faziosi, nominato componente della Consulta Nazionale (1945) De Nicola non si candidò all’Assemblea Costituente. Questa, tuttavia, il 28 giugno 1946 lo elesse presidente della Repubblica benché fosse notoriamente monarchico. Era lo Statista di garanzia nel difficile traghettamento dell’Italia all’indomani del referendum che aveva veduto contrapposti monarchici e repubblicani quasi alla pari e la vittoria della repubblica col magro consenso del 42% degli aventi diritto.

Come ricorda il suo biografo, Tito Lucrezio Rizzo, in “Parla il Capo dello Stato” (ed. Gangemi), De Nicola non abitò mai al Quirinale. Attrezzò il suo ufficio a Palazzo Giustiniani, alle spalle del Senato. Lasciò la carica l’11 maggio 1948. L’indomani gli subentrò Luigi Einaudi, parimenti liberale e monarchico, piemontese. Così si ripeté l’alternanza di epoca monarchica, quando il principe ereditario era di volta in volta “di Piemonte” o “di Napoli”.

Presidente del Senato (1951-1952), giudice costituzionale e ottantenne sempre lucidissimo presidente della Corte Costituzionale se ne dimise il 27 marzo 1957.

Morì dopo due anni di vita nuovamente appartata. Si sapeva della sua austerità. Soleva farsi rivoltare il cappotto, non per avarizia ma per senso del risparmio e per le sue ristrettezze, vissute con dignità. Dall’attività forense trasse sempre lustro ma pochi profitti. Come ha ricordato Giovanni Leone, altro presidente della Repubblica meritevole di rispetto e di memoria, all’indomani della sua morte (1° ottobre 1959) nel villino di Torre del Greco, privo di riscaldamento, si scoprì che “in casa sua non c’erano soldi neppure per l’acquisto dei medicinali. Il grande avvocato, il grande Statista che aveva rinunziato alle indennità presidenziali mantenendosi a sue spese a Roma, il danneggiato dalla guerra mondiale che aveva travolto i suoi risparmi impiegati tutti in titoli di Stato, ridotti a carta straccia, moriva povero”.

“Il suo senso dello Stato - osserva Rizzo – è l’eredità più preziosa lasciata ai posteri. L’alternativa alla Religione del Dovere è quella di uno Stato senza senso”. Vi è motivo di riflettervi a un mese da un referendum, che potrebbe impoverire più di quanto già non sia il rapporto tra cittadini e Istituzioni. La civiltà politica dall’Unità al regime resse e crebbe perché fondata sui collegi uninominali, non su liste di parlamentari predisposte da un Gran Consiglio (come avvenne dal 1928-1929) o da cupole di “partiti”. È un monito che inizia a farsi strada, perché la qualità dei rappresentanti dei cittadini non è separata dalle norme elettorali.

Aldo A. Mola  

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Articolo pubblicato il 23/08/2020