Dalle ricche Puglie alla Capitale del Regno delle Due Sicilie - Parte 3

il Regno delle Due Sicilie era l’unico che godesse una situazione di prosperità finanziaria

Devo correre, passo al Salento, pieno di Storia, con il suo Barocco e soprattutto la Taranta, di recente scoperta.

 

In Puglia, ci sono diverse Puglie. La regione appare come una sterminata distesa pianeggiante dove si coltiva di tutto in particolare, grano, vite, e ulivo. Nel Gargano, scrive la Valensise non piove mai, previsioni smentite proprio in questi giorni dopo la disastrata alluvione di questi giorni.

 

Si parte da Lecce l’armoniosa, come la chiamava Tommaso Fiore, è la città più seicentesca d’Italia , che ha conservato intatto il suo splendore, “tanto che appare al visitatore come una fantasiosa selva di pietra intagliata: putti, puttini, draghi, scimmie, aquile, grifoni e caproni, stemmi, leoni e cariatidi, statue e statuette (…)”e tanto altro. Girando per le strade della città “è tutto un teatrino barocco”.

 

I grandi viaggiatori, come l’archeologo Winckelmann, ne rimase rapito: “Lecce, è dopo Napoli, la più bella e la più grande città del Reame”. Dal 2001 il barocco è diventato il brand, il marchio di fabbrica con cui rilanciare l’immagine della città nel mondo. Anche qui si apre una parentesi storica sull’avvocato Liborio Romano, il “traditore” dell’ultimo re del Regno Duo Siciliano, Francesco II, che per scongiurare il peggio, cioè violenze e spargimenti di sangue, chiamò i camorristi a governare la città di Napoli, prima che arrivasse Garibaldi.

 

Mentre Francesco II combatteva, finalmente, la sua battaglia a Gaeta insieme alla giovane regina Maria Sofia. A questo proposito la Valensise cita il giornalista napoletano, del “Mattino”, Gigi Di Fiore, autore di la “Controstoria dell’Unità d’Italia”, un altro testo che racconta la vera storia che mise fine a sette secoli di storia del regno del Sud.

Dopo Lecce, sulla strada per Otranto, si fa tappa a Sternatia, una degli undici paesi della Grecia salentina, dove ancora si parla grico, un dialetto atavico. Qui si balla in piazza per la Notte della Taranta, festival itinerante che dal 1998 riunisce nel Salento migliaia di persone per ballare la pizzica, una musica popolare, con tamburelli e fisarmoniche.

 

Il territorio pugliese viene valutato come un “un lembo del Sud che in realtà è il Nord del Sud”.

Qui è tutto diverso dal resto del Meridione, a cominciare dal passato, dalla tradizione, qui “l’antico non è, come in Calabria, una condanna dalla quale rifuggire, un fardello dal quale emanciparsi in una spericolata corsa verso il nuovo (…)”. In Puglia, il passato, secondo la giornalista de Il Foglio, “non è un retaggio da coltivare con scetticismo velato di ironia, come succede in Sicilia (…)”. Invece, “il passato è una materia viva, risorsa, alimento e passione, sangue, terra, dolore e ricompensa. E soprattutto progetto”.

 

Addirittura i pugliesi sono riusciti a rivalutare “la pizzica, il morso della tarantola”. Da quindici anni a questa parte è diventata un fenomeno di costume. La taranta è diventata un’industria del turismo, in grado di attrarre ogni estate trecentomila persone itineranti “Si è trasformata in un grande evento popolare che ogni anno riunisce nelle piazze del Salento decine di migliaia di persone, giovani, meno giovani,(…) disposti a ballare per ore e ore, davanti al palco dei concerti itineranti nei comuni della Grecia, al suono di musiche popolari, di tarantelle storiche”.

 

In questi territori perfino l’arrivo degli albanesi ha contribuito a modificare il proprio modo di pensare. “Dovevamo giocarci una nuova partita, - ha detto il sindaco di Melpignano - rispondendo da protagonisti, in modo autonomo, senza imitare il Nord, ma provando a essere noi stessi.” E’ questo il miracolo postmoderno del Salento, tra barocco e taranta. In fondo al Salento si arriva a Otranto e qui la Valensise, apre l’abituale pagina di storia, descrive l’assedio ottomano di Maometto II nell’estate del 1480, con ben duecento navi.
 

Mentre i notabili scappavano, il popolo otrantino resistette, finché i turchi aprirono una breccia e entrarono nella cittadella, trucidando tutti, e sgozzando l’arcivescovo Stefano. Successivamente ottocento uomini, fatti prigionieri, invitati a rinnegare la fede cristiana, guidati da un sarto di professione, un certo Antonio Primaldo, scelsero la gloria del martirio.

 

Furono tutti decapitati sul colle della Minerva a uno a uno dal boia ottomano. La leggenda vuole che il vecchio Primaldo, decapitato, si rialzasse in piedi e rimanesse immobile con la testa sgozzata. Ora troviamo le loro teste nelle teche di vetro dietro l’altare della cattedrale di Otranto. Gli ottocento sono stati beatificati da papa Wojtyla, mentre l’anno scorso papa Benedetto XVI, qualche giorno prima del suo addio al pontificato, li ha canonizzati.

Purtroppo sono pochi quelli che ricordano lo straordinario episodio, secondo la Valensise, si registra poco orgoglio da parte dei pugliesi, soltanto Alfredo Mantovano, ex sottosegretario agli interni, cattolico militante di Alleanza Cattolica, li ricorda paragonandoli ai martiri cristiani di oggi trucidati in Iraq dal fondamentalismo islamico.

 

“Solo lui legge quest’episodio di resistenza di un’intera città alla proposta di abiura come la prova estrema della difesa dell’Occidente, avvenuta nella scettica Italia del Rinascimento, a dispetto degli interessi degli stati contrapposti l’uno all’altro in una guerra di predominio continua(…). In un certo senso il disinteresse di allora è simile a quello di oggi".
 

Per quanto riguarda l’economia pugliese, il testo della Valensise racconta diverse esperienze di uomini e donne che hanno fatto impresa in questi territori, che hanno scommesso in un territorio certamente, molto diverso da quello lucano o calabrese, qui è “tutto dolce, lieve e mitigato e la stessa violenza sembra assumere tratti stemperati”.
Inizia con il regista barone Edoardo Winspeare, convinto che la Puglia non ha bisogno di lamentarsi, come avviene in altre regioni del Sud. La Puglia potrebbe essere rappresentata come un popolo di formiche, succede nella “Masseria Carestia”, vicino Ostuni. Un fortilizio guidato dai Massari, dove si produce di tutto con procedimenti all’avanguardia, ben descritti dalla giornalista de Il Foglio.

 

Ogni giorno da Carestia, escono migliaia di confezioni di peperoni, zucchine, pomodori e carote, verdure per tutto l’Italia e per l’Europa. Mentre in un piccolo centro vicino Taranto, a Crispiano, c’è il miracolo di Michele Vinci con la sua Masmec, un’azienda leader nel settore dell’automazione industriale, con clienti finali le grandi imprese automobilistiche come la Bmw, Mercedes Benz, Porsche, Wolksvagen, Fiat.
Per comprendere meglio l’antropologia pugliese, e la rivoluzione mentale in atto, la Valensise fa un paragone stuzzicante e divertente, tra due uomini dello spettacolo abbastanza conosciuti: Checco Zalone , l’ultima maschera della commedia dell’arte e del teatro barese e Lino Banfi, il “terrone provolone”, un erotomane pieno di complessi.

 

Prima di arrivare a Taranto, a Martina Franca, troviamo Mario Desiati, un giovane scrittore, che riesce a raccontare la provincia italiana e soprattutto la difesa dei trulli, quei muretti a secco, che nessun pugliese sa più costruire. Si arriva a Taranto, la città dei due mari, ricca di storia, è una delle città più mitologiche d’Europa. “Qui ogni pietra trasuda la storia della civiltà”. Basta scavare un po’ e la terra restituisce tesori sepolti da millenni. Purtroppo negli anni ci sono stati quelli che l’hanno fatto indisturbati, trafugando ogni ben di Dio. La Valensise evidenzia il ruolo della città come apertura ad altri popoli, “appare ancora oggi come un’antica metropoli cosmopolita, un crogiolo di razze, lingue, costumi”.

 

Taranto è la città di Giovanni Paisiello, il grande musicista dell’inno borbonico, ma è anche la città dell’Ilva ex Italsider, con i suoi fumi rossi e la polvere color ruggine che ora sta distruggendo l’ambiente. E qui Valensise, si ferma sulla sciagurata politica della grande industria pesante, in particolare fomentata negli anni 70’dalla sinistra, che “sognava di cambiare il volto dell’antropologia meridionale, di riscattare il bracciante, di creare, grazie alle ciminiere industriali, l’uomo nuovo per liberarlo dalla servitù della terra”.

Dopo Taranto il viaggio contromano della Valensise arriva nella “Terra laboris”, nel Sannio a Benevento, una città simile alla Svizzera, pulita, ordinata, accogliente a cominciare dalla stazione ferroviaria. Qui si respira un’altra aria, niente indolenza o strafottenza.

 

Benevento è la città del liquore “Strega”, forse più famoso in Italia. Altra azienda interessante è l’olio di Montesarchio, uno dei più grandi complessi agroindustriali del mondo. “Oggi è considerato un caso di studio in fatto di gestione industriale e crescita produttiva, per aver raggiunto un fatturato che ha moltiplicato per dieci i 20 milioni di finanziamenti pubblici a fondo perduto(….)”.

 

Prima di arrivare a Napoli, si passa nella costa sorrentina, dove tra ristoranti rinomati e bellezze naturali, capisci che qui è un mondo a parte. Eccoci finalmente a Napoli, capitale del grande Regno Borbonico, che ha stregato visitatori illustri a cominciare da Wolfgang von Goethe che la considerava la più bella metropoli del Mediterraneo, la più grande città marittima dell’Europa. L’illustre ospite rimaneva talmente estasiato del popolo napoletano che poteva affermare: “Non lavorano semplicemente per vivere, ma piuttosto per godere, e anche quando lavorano vogliono vivere in allegria”. Ancora una volta Valensise polemizza con la storia ufficiale dei vincitori, la città partenopea, forse era l’unica capitale d’Italia, dopo l’unità diventa soltanto una semplice prefettura del neonato Regno d’Italia.

 

A questo punto il testo riafferma quello che ormai per la verità ammettono in tanti, tranne qualche “residuato bellico” ultraliberale risorgimentista: il Regno delle Due Sicilie era “l’unico che godesse una situazione di prosperità finanziaria, con una rendita pubblica fra le più alte d’Europa, quotata alla borsa di Parigi al 105-106 per cento del suo valore nominale, mentre quello piemontese, con lo stesso valore demaniale, stentava a tenersi sul 70 per cento”. Certo la vera Storia va studiata tutta, senza però “rancori retroattivi”, che diano sfogo a rivendicazioni e nostalgie fuori luogo.

 

Chiudo con il riferimento all’interessante “Modello Sanità”, il quartiere difficile di Napoli dove don Antonio Loffredo insieme a tanti giovani è riuscito a fare grandi cose. Ho già presentato la straordinaria esperienza del prete napoletano, che è riuscito a coinvolgere decine di giovani in diversi progetti tra cui quelli del restauro e rivalutazione delle catacombe di S. Gennaro e degli ipogei ellenistici ai Cristallini. Penso che queste esperienze positive, dovrebbero essere conosciute meglio per incoraggiare tutti a lavorare senza lamentarsi o piangersi addosso.

 

 

 

 

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Articolo pubblicato il 26/08/2020