Alla scoperta dei misteri di Torino - Parte 1

Può una città determinare le sorti di un Paese? Forse si, leggere il libro «Il mistero di Torino. Due ipotesi su una capitale mancata», Arnoldo Mondadori per credere.

Il libro è stato scritto a quattro mani da, Vittorio Messori e Aldo Cazzullo, due giornalisti che hanno la capacità di scrivere bene. Non conoscevo questa pubblicazione, ma quando ho visto il nome di Messori, collegato alla città dove da qualche mese abitualmente soggiorno, non potevo non essere interessato alla sua lettura.

 

Tuttavia mi sono fermato alla parte scritta da Messori che, d'altronde, costituisce oltre i due terzi dell'opera (quasi 500 pagine). La parte di Cazzullo mi riprometto di leggerla più avanti. Il suo contributo è a due facce: nella prima parte è una descrizione, infarcita di digressioni, della sua infanzia nella città subalpina, del come la città l'abbia accolto, delle scuole che ha frequentate, dell'inizio della sua attività lavorativa.

 

Poi, quasi d'improvviso, il Messori si addentra nell'analisi socio religiosa e qui si vedono i suoi giudizi controcorrente, provocatori e per certi versi, certamente “politicamente scorretti” sui fatti e sui protagonisti della società torinese.

Messori si occupa dei “torinesi” a 360 gradi, non trascura quasi nulla, almeno di quello che conta. Si passa dalla storia alla politica, dalla religione alla cultura,  dal giornalismo allo spettacolo e poi soprattutto alla Fiat della famiglia Agnelli.

 

Dando uno sguardo ai commenti nella rete, qualcuno ha scritto che Messori è troppo di parte, mette al centro delle sue riflessioni sempre la fede cattolica. «Soprattutto lui non fa niente per nascondere quello che sembra essere la sua ragione di vita: la religione di santa romana chiesa, insomma i personaggi che man mano scorrono nel suo racconto i protagonisti in qualche modo della storia di Torino se non sono cattolici non valgono niente».

Naturalmente questo non mi scandalizza, Messori non ha mai nascosto la sua identità, la sua storia. In fondo, intervistato da Saverio Gaeta, pare che che abbia detto che in fondo, «Torino, è soltanto una scusa che mi ha consentito ancora una volta di proporre una lettura cattolica del mondo e della storia».

 

Tuttavia con questo «ponderoso saggio Il mistero di Torino. In realtà, non ha fatto altro che continuare il lavoro di riflessione portato avanti nella fortunatissima rubrica Vivaio, pubblicata per diversi anni sul quotidiano Avvenire (e raccolta in una trilogia delle Edizioni San Paolo) e oggi proseguita sul mensile di apologetica Il Timone».

Comunque sia anche in questo libro il giornalista, nativo di Sassuolo, esprime non solo la sua vocazione di cattolico ma anche quella di ricercatore, studioso di libri anche di difficile reperibilità. Pertanto anche in questo testo ci offre una serie di episodi, di fatti, ben documentati, con accurate riflessioni sui più svariati argomenti.

 

Certo nel saggio su Torino, ha dovuto essere per forza sintetico nel trattare gli argomenti, quasi ad invogliare il lettore ad informarsi direttamente sui tomi che lui stesso ha consultato.

Nel libro Messori mostra le cose da una prospettiva ben precisa, a volte  imbarazzante, di tutto quello che si è raccontato nei decenni di Torino con erudita superficialità (o forse, con un forte condizionamento di parte).

Anche in questo libro, oltre al suo modo gradevole di scrivere, non può abbandonare il suo radicalismo cristiano o meglio la sua forte passione apologetica. Lo si nota quando affronta i temi religiosi, attinenti alla Chiesa, agli uomini e alle donne che hanno reso credibile l'istituzione nella città di Torino.

 

Appassionanti sono i riferimenti ai grandi santi dell'Ottocento torinese, come don Bosco e il Cottolengo. Ma non sono meno attraenti quando affronta gli argomenti laici che riguardano l'economia della città, la cultura più o meno egemone prodotta nelle università, nelle numerose case editrici, nell'unico giornale di Torino, La Stampa, che era ben più di un giornale. Qui senza mai essere offensivo delinea il pensiero laico dei tanti uomini che hanno fatto la storia non solo torinese ma anche del Paese. Qualche nome per tutti, Norberto Bobbio, Antonio Gramsci.

In questo testo, la “strana coppia”, diversa per età, per opinioni, per formazione, racconta l'enigma di Torino, una «strana metropoli», la sua atmosfera, i suoi personaggi, sempre sorprendenti, a volte inquietanti, che partono sempre da due opposte prospettive: cattolica e laica.

 

In uno scontro e incontro continuo. «La città sabauda diviene così metafora del mondo, luogo geografico e spirituale dove luce e ombra, peccato e grazia convergono e si sfidano a duello. Sullo sfondo, il paradosso di Umberto Eco: 'senza l'Italia, Torino sarebbe più o meno la stessa. Ma senza Torino, l'Italia sarebbe molto diversa'».

Il paradigma di questa sfida potrebbe essere il partito del compagno Antonio Gramsci e la Chiesa del beato Pier Giorgio Frassati, che appartengono a universi differenti. Ma non basta, perché nelle ultime pagine l'autore se la prende con i suoi antichi maestri (giustificandosi con "qui non si giudicano persone, ma idee"): nomi come Alessandro Galante Garrone, Norberto Bobbio, Luigi Firpo, tutti ormai da tempo deceduti e quindi non in grado di rispondergli.

 

Certamente questi nomi insieme ad altri hanno creato quell'egemonia culturale, che per troppo tempo ha imperversato in troppe redazioni di giornali e che forse è sfociata in quell'ideologia del «politicamente corretto».

Continuando con le sfide a Torino convivono la Sindone e l'autoritratto di Leonardo da Vinci. Don Bosco, con tutte le sue opere di fede e di carità, e Nietzsche, che giunto in città, impazzì.

Del resto la Torino raccontata da Cazzullo e Messori è essenzialmente la città degli ultimi sessant’anni sempre sulla scorta della testimonianza personale con qualche ausilio proveniente dalle notizie attinte alla viva voce dei protagonisti (i nomi raccolti nel libro sono veramente tanti) e, raramente, alla saggistica o alla letteratura.

 

Naturalmente c’è tanta Fiat: la Fiat come «madre» (accogliente o matrigna) dei torinesi del XX secolo, dispensatrice di lavoro e raccoglitrice di profitto, orizzonte, speranza, e talora anche dannazione, specie nei tempi duri, di migliaia di torinesi, soprattutto quelli venuti dal Sud.

Non credo che questo libro sia diverso da altri libri scritti su altre città, non dà la sensazione di essere scritto in difesa di una causa, o di dimostrare la superiorità di questa città. Non è tutto bello nella Torino dipinta da Messori e Cazzullo, come in tutte le città ha i suoi profondi difetti ma anche qualche pregio e gli autori cercano di restituire la verità su dei pregiudizi, oramai sclerotizzati, su questa città. Anche se Torino è stata sempre una capitale incompresa: effettivamente Torino è stata una capitale, forse la capitale e, senza alcun dubbio, è sempre stata incompresa, troppo confusa e paradossalmente offuscata dall’ombra immanente della FIAT.

 

Tra i quartieri o vie che Messori descrive dettagliatamente c'è quello di San Donato, che si arriva da piazza Statuto, diverso rispetto ad altri di Torino, l'ho notato anch'io. Qui le case non sono come per altre vie, «soldati impettiti sull'attenti in attesa di una parata». Il Borgo si staglia tra due perfetti rettifili: via Cibrario e corso Regina Margherita. A metà della via si alza lo straordinario campanile costruito insieme alla chiesa di N. S. del Suffragio, dal grande architetto e religioso Faa di Bruno. Messori ha studiato a fondo questa figura abbastanza singolare, gli ha dedicato una biografia, vissuto al tempo del più conosciuto don Bosco. E' qui che Messori ha vissuto nella sua permanenza a Torino, è il suo borgo, peraltro riporta nel testo, perfino alcuni locali importanti che hanno fatto la storia del quartiere.

 

Un altro quartiere a cui dedica qualche pagina è quel Borgo San Paolo, il borgo idealizzato, dove il sindaco Diego Novelli, sognava la I Cit Turin, una specie di Berlino Est subalpina, grigia ma rassicurante. A proposito di sindaci, interessante il lavoro svolto dal grande sindaco avvocato Amedeo Peyron, cattolico tradizionalista. Fu lui a gestire l'immigrazione di 730.000 persone accolte in quindici anni. E qui Messori fa notare che fino al 1975, la maggioranza dei torinesi votò per i democristiani, sostanzialmente anticomunista, nonostante gli stereotipi messi in atto da certo giornalismo.

 

Un'altra imbarazzante notizia, sono i tanti pellegrinaggi aziendali a Lourdes degli operai della Fiat, voluti dal sincero entusiasmo religioso dell'ingegner Gaudenzio Bono, vicedirettore generale e poi amministratore delegato della Fiat, il braccio destro di Valletta. Messori tiene a precisare che questo caso, «non fu affatto, come credono persino molti cattolici, una strumentalizzazione della religione decisa cinicamente dal padrone, distribuendo una buona dose di 'oppio dei popoli' ai lavoratori, così da renderli più docili». Valletta, era massone attivo ma rispettoso del cattolicesimo e lasciò fare a Bono.

 

«L'adesione al pellegrinaggio era ovviamente del tutto facoltativa e i partecipanti pagavano la loro quota, detraendo i giorni dalle ferie. Non era, dunque, una scampagnata gratuita a carico dell'azienda, un surplus di vacanza». Ogni anno aumentavano i partecipanti, «migliaia e migliaia di quegli operai che avrebbero dovuto, secondo gli intellettuali gauchistes, avere ben altre prospettive, pagavano per andare a pregare là dove Bernadette, per diciotto volte, aveva visto l'Immacolata». Questa è una notizia bomba, che non ho avuto notizia da nessuna parte. Infatti nessuno ne parla di questa vicenda imbarazzante, inclassificabile negli schemi di tanti storici e sociologi.

 

Ci sono le foto che testimoniano sterminate colonne di membri della “classe operaia”, con la tua bianca in festa, con la scritta Fiat sulla schiena, sfilano in processione, reggendo statue e stendardi delle confraternite.

Tra l'altro il vescovo di Lourdes come riconoscenza per i grandiosi pellegrinaggi dei lavoratori della Fiat, donò la cancellata che stava davanti alla Grotta alla città di Torino.

 

Purtroppo gli appuntamenti annuali a Lourdes furono bruscamente interrotti nel 1966, «non per esaurimento dell'adesione dei lavoratori, che anzi protestarono, ma per un atto di imperio – qualcuno disse di prepotenza o, almeno, di demagogia clericale – del nuovo arcivescovo, il cardinal Michele Pellegrino. Il quale, adeguandosi al clima dell'epoca, volle cancellare quella che sembrava una imbarazzante commistione 'teologicamente scorretta' tra capitalismo e religione».

Continua.

 

 

 

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Articolo pubblicato il 08/09/2020