La buona morte: la Chiesa nel Mondo

“La miseria più grande consiste nella mancanza di speranza davanti alla morte”; questo motiva il dovere d’accompagnamento” degli infermi nelle fasi terminali della malattia. E’ il messaggio conclusivo della lettera “Samaritanus bonus”, approvata dal Sommo Pontefice, che la Congregazione per la Dottrina della Fede ha pubblicato a metà luglio scorso, per ribadire posizioni sulle quali la Chiesa è arroccata da sempre. Ma ci sono anche aperture a trattamenti nelle fasi critiche e terminali della vita, che devono essere somministrati però con discernimento morale e che possono essere sospesi se non più efficaci.

In un nostro precedente articolo del 15.10.2020 (www.civico20news.it la buona morte: il diritto in italia), abbiamo parlato di questo argomento nell’ottica della sentenza 242/19 della nostra Corte costituzionale, che ha focalizzato le mancanze dell’articolo 580 del Codice penale, il così detto Codice Rocco, ancora oggi vigente in modo sostanziale, pur se concepito nel ventennio fascista, quando diverse dalle attuali erano le considerazioni sul valore della vita delle persone. La Consulta ha giudicato “non punibile chi agevola l’esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di una persona tenuta in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetta da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che ella reputa intollerabili, ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli, sempre che tali condizioni e le modalità di esecuzione siano state verificate da una struttura pubblica del servizio sanitario nazionale, previo parere del comitato etico territorialmente competente”. Il Codice Rocco non prevede questa esimente. La Corte costituzionale quindi, a parere di alcuni, avrebbe legalizzato in Italia, a certe condizioni, il suicidio assistito, non l’eutanasia. Per l’EPAC, l’Associazione Europea dei Medici, è suicidio assistito quando un medico lascia al paziente la responsabilità dell’atto finale e lo aiuta a suicidarsi; è eutanasia quando un medico somministra una sostanza letale su richiesta del paziente.

“Samaritanus bonus” ribadisce la condanna di ogni forma di eutanasia attiva e passiva e di ogni forma di suicidio assistito: sono crimini contro la vita umana, “una grave violazione della Legge di Dio, in quanto uccisione deliberata moralmente inaccettabile di una persona umana”.

La biomedicina, le componenti diagnostiche e terapeutiche, col loro straordinario sviluppo molto hanno contribuito al miglioramento delle cure dei pazienti e alla conservazione della vita umana. La Chiesa però domanda che questo progresso sia accompagnato da “una crescente e sapiente capacità di discernimento morale per evitare un utilizzo sproporzionato e disumanizzante delle tecnologie soprattutto nelle fasi critiche o terminali della vita”. Chiede inoltre alla medicina di “accettare il limite della morte come parte della condizione umana”: chi si prende cura di un malato deve avere la responsabilità morale di tutelarne e promuoverne la vita fino al sopraggiungere naturale della morte.

Le cure che non danno un reale beneficio al paziente e possono solo ritardarne artificialmente la morte, sostanziano un abuso di “protocolli medici applicabili alle situazioni di fine-vita… in una prospettiva eutanasica”.

La Chiesa, che difende la dignità della persona e quindi “il diritto a morire nella maggiore serenità possibile e con la dignità umana e cristiana” che è dovuta, prende sull’argomento posizioni difficili da accettare o addirittura da rigettare per alcuni, assolutamente condivisibili invece per altri. Sostiene infatti che “nell’imminenza di una morte inevitabile è lecito in scienza e coscienza prendere la decisione di rinunciare a trattamenti che procurerebbero soltanto un prolungamento precario e penoso della vita, senza tuttavia interrompere le cure normali dovute all’ammalato in simili casi. Ciò significa che non è lecito sospendere le cure efficaci per sostenere le funzioni fisiologiche essenziali, finché l’organismo è in grado di beneficiarne (supporti all’idratazione, alla nutrizione, alla termoregolazione; ed altresì aiuti adeguati e proporzionati alla respirazione, e altri ancora, nella misura in cui siano richiesti per supportare l’omeostasi corporea e ridurre la sofferenza d’organo e sistemica)”. “La rinuncia a mezzi straordinari e/o sproporzionati non equivale al suicidio o all’eutanasia; esprime piuttosto l’accettazione della condizione umana di fronte alla morte”.  

Per accompagnare il paziente nelle fasi croniche e terminali della malattia, spesso le più sofferte e le più dolorose, molto possono le cure palliative, che “Samaritanus bonus” considera come “l’espressione più autentica dell’azione umana e cristiana del prendersi cura” del malato, ma ne addita però una criticità: in alcuni casi esse prevedono somministrazioni di farmaci intesi ad anticipare la morte e queste pratiche, da alcuni definite “cripto-eutanasiche”, sono assolutamente non lecite.

La scelta dei dispositivi medici deve essere dunque attentamente ponderata perché potrebbero essere sproporzionati a fronte dei risultati sperati. Deve essere comunque evitato l’accanimenti terapeutico, cioè l’uso di quei trattamenti, che procurerebbero soltanto un prolungamento precario e penoso della vita. Quando espressa nelle cosiddette Dichiarazioni Anticipate di Trattamento (DAT), la volontà del morente va rispettata; però, “sopprimere un malato che chiede l’eutanasia non significa affatto riconoscere la sua autonomia e valorizzarla, ma al contrario significa disconoscere il valore della sua libertà, fortemente condizionata dalla malattia e dal dolore, e il valore della sua vita”. Atti di natura eutanasica o suicidaria devono essere quindi esclusi, sicché, anche i malati in stato vegetativo, che non cessano di essere persona umana con tutta la dignità che è loro propria, devono essere assistiti con cure adeguate.

Ogni atto medico, nelle fasi critiche e terminali della vita di una persona, non sarà mai di perseguimento della morte ma sempre e in ogni caso di accompagnamento della vita del malato con la continuità dell’assistenza alle sue funzioni fisiologiche essenziali e con la somministrazione, nella misura necessaria, degli alimenti e dei liquidi per il mantenimento dell’omeostasi del corpo, fino a quando tutto ciò risulterà di giovamento. Queste somministrazioni vanno sospese solo quando l’organismo non è più in grado di assorbirle o metabolizzarle: è così che si rispetta il decorso naturale della malattia critica o terminale senza anticipare illecitamente la morte, che non sopraggiunge per privazione dei supporti idratativi e nutrizionali essenziali alle funzioni vitali. Alimentazione e idratazione non sono una terapia medica in senso proprio, ma “un’attenzione clinica e umana primaria e ineludibile” e le loro privazioni possono essere fonte di grandi sofferenze per chi la patisce; peraltro, possono essere somministrate anche in modo artificiale, purché questo non risulti dannoso per il malato o gli provochi sofferenze inaccettabili.

Il confine tracciato da “Samaritanus bonus” tra un comportamento ritenuto lecito e l’altro non considerato tale, appare dunque molto permeabile mentre il peso della sofferenza e della morte dei pazienti inguaribili grava innanzitutto sugli operatori sanitari che li hanno in carico. Anche il fatto che questi “conservano sempre il diritto e il dovere di sottrarsi a volontà discordi al bene morale visto dalla propria coscienza” può essere per loro fonte di esaurimento emotivo, irrequietezza e senso di frustrazione, apatia e depersonalizzazione: sono i segni più appariscenti di “burnout”, la sindrome che può comportare depressione ed irritabilità, senso di impotenza di disperazione e di colpa, trascuratezza degli affetti.

E’ condivisibile pertanto e particolarmente apprezzabile il passo di “Samaritanus bonus”, che motiva la necessità di “prendersi cura di chi cura” aiutandolo a elaborarne le particolari emozioni, il senso delle inquietudini e le personali afflizioni, nell’ambito del loro prezioso ed inestimabile servizio alla vita. Si vales, valeo.

armeno.nardini@bno.eu

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Articolo pubblicato il 22/10/2020