Cavalieri Dal Buio Alla Luce

Di Francesco Cordero di Pamparato (Prima Puntata)

Iniziamo la pubblicazione di “Cavalieri Dal Buio Alla Luce”, romanzo inedito di Francesco Cordero di Pamparato, scrittore che i Lettori di Civico20News già conoscono per i suoi vari racconti pubblicati nei mesi di settembre e ottobre 2020. “Cavalieri Dal Buio Alla Luce” è costituito da tre parti, la Prima intitolata “L’Intuizione dell’Ordine”, la Seconda “I Prescelti alla Conoscenza” e la Terza “Verso la Verità”. La Prima Parte comprende Tre Fasi, la Prima dal titolo “Spiriti Innocenti”, la Seconda “Finisce l’Innocenza” e la Terza “Bivi nella Vita”. Ringraziamo l’Autore che ha voluto condividere con noi la sua opera e auguriamo buona lettura! (m.j.).

 

Cavalieri Dal Buio Alla Luce

Parte Prima - L’Intuizione dell’Ordine

Fase Prima: Spiriti innocenti

1 - Il Cavaliere

 

È una giornata di fine maggio. Il cielo è limpido. Spira un vento leggero. Il clima è mite. Dalla falesia vedo la campagna sottostante, i campi, il mare e tutta la mia vita.

Mi chiamo André, ho ventisei anni, sono un cavaliere di Bretagna. Sono stato allevato alla corte del Duca. Mia madre morì quando avevo due anni, dando alla luce mio fratello. Mio padre tre anni dopo, combattendo contro i Sassoni.

Passai gli anni della mia infanzia tra le dame di palazzo, i bardi e i menestrelli. Costoro cantavano sempre delle imprese meravigliose dei cavalieri. Come era bello, secondo loro, battersi nei tornei, andare in guerra, superare cimenti per la donna amata.

Io però, sentivo come fosse triste non avere genitori. Nelle loro canzoni, le Corti sembravano un luogo bello come il Paradiso descritto dai monaci. A forza di ascoltarli, anch’io cominciai a trovare la Corte del Duca un posto bellissimo, anche se, gli odori che vi aleggiavano, invece che soavi profumi, a me sembravano piuttosto una puzza.

Verso i dieci anni, avevo udito ormai, talmente tanti cavalieri vantarsi delle loro imprese, che il desiderio di emularli si era fatto forte in me. Mio fratello, invece, trascorreva molto tempo con i monaci, tanto che, in seguito, entrò in monastero anche lui.

Io, con il passare degli anni, cominciai ad essere iniziato all’uso delle armi, per poter poi essere investito cavaliere, la notte di Natale del mio diciottesimo anno.

Prima, dovetti fare il tirocinio da scudiero e imparare ad usare la spada, lo scudo l’arco e le frecce.

A quindici anni, partecipai alla mia prima battaglia. Fu un piccolo scontro, dove io e altri scudieri a piedi, fummo assaliti da una torma di pirati venuti dal Nord.

Noi eravamo inferiori di numero e, anche se combattevamo con tutte le nostre forze, avemmo presto forti perdite. La vista e l’odore del sangue, i brani di carne staccata a colpi di spada e di ascia, le viscere che uscivano dal ventre dei morti, mettevano un tale disgusto, più forte ancora della paura.

Non passò molto e dovemmo ripiegare, temendo di essere sopraffatti, quando, proprio come nei canti dei bardi, sentimmo il suono di un corno. I cavalieri del Duca stavano venendo in nostro soccorso. Quella carica è l’immagine maggiormente impressa nella mia memoria.

Cento cavalieri in armatura splendente, i cavalli con gualdrappe multicolori, le lance abbassate, il rumore degli zoccoli che fanno tremare la terra, la polvere, la felicità di sentirsi salvi, sono cose che solo chi ha provato può capire.

Il resto fu storia breve, non ci volle molto ai cavalieri a distruggere i pirati. Molti perirono, infilzati dalle lance, altri calpestati dai cavalli, qualcuno trovò scampo nella fuga, i più vennero fatti prigionieri. La sera fu festa al castello del Duca. Quelli di noi che non erano stati feriti, furono ammessi al banchetto con i cavalieri.

Tutti bevevano molto e si vantavano delle proprie gesta. Soprattutto i cavalieri.

Quella sera, decisi che diventare un cavaliere, era la cosa più bella, che un uomo potesse fare.

La festa durò a lungo; ai canti e alle risa dei commensali ubriachi, facevano eco le urla dei prigionieri torturati. Il giorno dopo, molta gente venne dai villaggi, per vederli decapitare nel cortile del castello. Dopo l’esecuzione, anche i contadini si diedero al bere, fino a quando crollarono ebbri.

Da allora, furono molte le battaglie a cui presi parte. Fino ai diciotto anni fui sempre nella fanteria.

La carneficina non mi fece più impressione da quando, con un colpo di spada, spaccai in due la testa di un Sassone.

Nelle notti, sognavo il giorno in cui sarei stato investito cavaliere. Avrei, finalmente, potuto indossare l’armatura, combattere a cavallo, partecipare ai tornei con i cavalieri famosi, battermi con loro, compiere imprese che sarebbero state cantate dai bardi. Quella è vita pensavo.

Ero diventato bravo a montare a cavallo. Non vedevo l’ora di poter, in groppa al nobile animale, compiere imprese memorabili.

Nella notte di Natale del mio diciottesimo compleanno, feci finalmente la veglia d’arme. Oramai avevo superato tutte le prove. Il mattino all’alba, sarei stato investito cavaliere, con altri undici giovani, provenienti dai vari feudi del Duca.

Ognuno di noi vegliò in una cappella diversa, impegnato a riflettere sui suoi futuri doveri. L’investitura avrebbe avuto luogo nella grande Cattedrale, presente l’Arcivescovo.

Passai la notte pregando di poter avere un luminoso futuro: poter diventare un valoroso combattente, partecipare a tornei, magari diventare signore di un piccolo feudo.

Avevo addosso un saio, contavo le ore che mi separavano dal momento in cui mi sarebbero stati affidati i metalli delle armi.

Durante la cerimonia, ero così emozionato, che quasi non riuscivo a seguire cosa stava succedendo, come avessi una benda sugli occhi.

Mi risvegliai solo quando il Duca mi posò la sua spada da cerimonia sulle spalle e sulla testa, mi abbracciò e mi nominò cavaliere. Lo sentii anche dire che ora facevo parte di un grande ordine; ero troppo emozionato, non capii cosa voleva dire.

Passai un anno, ad imparare a combattere a cavallo, in formazione con i veterani. Allo scadere del terzo anno, fui finalmente messo al comando di un gruppetto di più giovani.

In quegli anni, il Duca mi aveva proibito di partecipare a tornei. Non voleva che rischiassi inutilmente. Ero un suo cavaliere, dovevo battermi solo per lui, se volevo sperare di diventare un giorno suo vassallo.

Passai sei anni al castello, presi parte a molti fatti d’arme, vidi morire molti commilitoni, fui ferito molte volte, cinque gravemente.

Nei periodi di pace, tutta la corte partecipava a grandi battute di caccia. Dame e cavalieri mangiavano insieme nella grande sala centrale, dove i bardi cantavano sempre nuove imprese. Molte erano totalmente inventate.

Finalmente, venne il giorno tanto atteso. Da sei mesi non c’erano state operazioni militari. Persino i pirati non infestavano più le coste. L’inattività mi rendeva irrequieto e stavo pensando di abbandonare il Duca per diventare cavaliere errante.

Fu il Duca a prevenirmi, mi chiamò e mi disse che, il capitano di un castello sulla costa, era stato ucciso in una rivolta di contadini. I suoi uomini avevano saccheggiato un villaggio e gli abitanti si erano rivoltati. Il capitano era stato ucciso con alcuni uomini, gli altri, per punizione sarebbero stati mandati al confine con i Sassoni.

Avrei dovuto prendere il comando di cento uomini, di cui venti a cavallo, sedare la rivolta, prendere possesso del castello, difendere i contadini dagli attacchi dei pirati.

Se il mio operato lo avesse soddisfatto, in capo a tre anni, mi avrebbe fatto conte.

Un castello tutto mio! Poter diventare conte! Adesso sì che i bardi avrebbero cantato le mie gesta. Risposi entusiasta che non vedevo l’ora di partire.

Non ci volle molto che, alla testa del mio piccolo esercito, mi dirigessi verso quello che già consideravo il mio feudo. Mi ero persino preparato il discorso da fare agli abitanti del villaggio.

Quando arrivammo a destinazione, provai la prima delusione. Non ci fu da sedare nessuna rivolta. I contadini ci accolsero con la più totale indifferenza.

La delusione maggiore, però, la diede il castello. Non era niente di più che una grossa torre, in cima alla falesia, da cui si dominava il mare.

Che differenza da quello magnifico del Duca. Non c’era neanche una scuderia, per tenervi i cavalli. Quando entrammo, ci accorgemmo che, vista da dentro, era ancora peggio. Era composta da cinque piani, ognuno dei quali formato da un unico stanzone, collegato agli altri da una scala di legno. Ero deluso, se i bardi mi avessero visto, sarei diventato oggetto del loro scherno, non certo il protagonista di canti epici.

Tuttavia alla lunga, questa fu la nostra fortuna. In un periodo di pace, l’ozio è il peggior nemico dei soldati. Diventa difficile impedire loro di bere, di razziare i villaggi, invece di difenderli. Con i precedenti che c’erano stati, i guai avrebbero potuto essere enormi.

Pensai subito di creare un perimetro di mura, ai lati della torre. Se non altro, il lavoro avrebbe tenuto occupati i miei uomini.

Cercai di conquistarmi la fiducia dei contadini. In principio c’era molta diffidenza: avevano paura che i soldati si ubriacassero e violentassero le donne. Impiegai mesi, alla fine li convinsi a collaborare a creare un ricetto per loro, qualora avessimo dovuto subire un assedio.

La vita, comunque, era dura: la torre era molto umida, sempre battuta dal vento, gelida d’inverno, soffocante in estate; sempre maleodorante. Le uniche battaglie le combattevamo con mosche e zanzare.

Il problema maggiore era tenere in addestramento le truppe. C’era sempre qualcuno di guardia, per metterci in allarme, se si fosse avvistato un nemico, che non compariva mai. Sovente gli uomini davano segno di irrequietezza, qualche volta ci furono risse con gli abitanti dei villaggi. Dovevo tenerli in esercizio con lunghe marce, con esercitazioni di assalto alla torre. Gli uomini a cavallo facevano ronde di molte ore ogni giorno.

Il tempo passava, i pirati non arrivavano mai. Di tanto in tanto, venivano segnalati a qualche lega di distanza, sempre lontani dal nostro territorio. Era difficile impedire ai soldati di lasciarsi andare. Dovetti farne frustare più d’uno. Una volta dovetti farne uccidere uno che aveva cercato di violentare una donna.

I rapporti con i contadini si mantenevano difficili. Erano molto diffidenti nei nostri confronti, anche se tutte le volte che un soldato aveva trasgredito agli ordini, era stato punito severamente.

La vita andava avanti in modo monotono ormai da due anni, quando questa mattina decisi di uscire con gli uomini a cavallo, per una perlustrazione. Dopo due ore di marcia, sentimmo un segnale con il corno. Indicava pericolo: i pirati erano finalmente sbarcati.

Avevo lasciato la fanteria alla torre, da quella posizione sarebbe stato loro facile ricacciare i predoni, se si fossero avvicinati al villaggio. Il nostro compito, a questo punto, era tagliare loro la via del ritorno alla nave.

Mandai un uomo in ricognizione, per sapere cosa fare e dove dirigermi. Dalle informazioni che mi riportò, venni a sapere che i pirati non erano molti, erano stati respinti, non prima però di avere fatto prigionieri al villaggio.

Per raggiungerli e liberare i prigionieri, eravamo purtroppo costretti a una scelta dolorosa: tagliare attraverso i campi e calpestare parte del raccolto. Valutai che le vite umane avessero il valore maggiore e ci lanciammo alla carica. Fu un successo. Non ci aspettavano e, già provati dal precedente scontro, lasciarono i prigionieri e si dettero alla fuga.

Pochi sopravvissero alla nostra carica, per tornare ai loro lidi e dire a casa che questo non era posto da attaccare.

Pensai fosse il caso di passare dal villaggio. Finalmente si sarebbero fidati di noi, dopo che li avevamo salvati.

Fui colpito alle spalle dalla freccia di un contadino cui, per salvare la moglie, avevo calpestato il campo. Ora sto morendo, chissà se i bardi canteranno la mia impresa.

 

Francesco Cordero di Pamparato

Fine prima puntata - Continua

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Articolo pubblicato il 08/11/2020