Cavalieri Dal Buio Alla Luce

Di Francesco Cordero di Pamparato (Terza Puntata)

3 - L’alieno

 

L’oasi di Tigrat non era ricca. Dava però cibo a sufficienza, per i suoi abitanti, che, con il commercio con le carovane di passaggio, avrebbero potuto anche vivere bene, ma una calamità l’affliggeva.

Non era una calamità naturale, forse era anche peggiore: una banda di crudeli predoni, l’aveva presa di mira e la saccheggiava periodicamente. Ogni volta che una ricca carovana transitava per Tigrat, questi sciacalli si abbattevano, come un’orda di cavallette, sulla povera oasi, per depredarla, lasciando agli sventurati abitanti, solo quel tanto che consentisse loro di sopravvivere, ricominciare da capo la solita vita, fino a che non avessero avuto di nuovo abbastanza, per depredarli un’altra volta.

Il capo dei predoni, Yussuf, era un uomo molto forte e tracotante. Aveva una spada di Damasco: le migliori lame del mondo conosciuto. Sempre, quando arrivava, si presentava ghignando e sfidando gli abitanti del villaggio a battersi con lui. Giurava su Allah che, se qualcuno lo avesse sconfitto, da quel momento, l’oasi sarebbe stata risparmiata. Solo un uomo aveva raccolto la sfida e, se pur dopo valorosa lotta, era stato sopraffatto ed ucciso.

Ora l’oasi era alla sua mercé, non c’era nessuno che avesse né la forza né il coraggio di affrontarlo.

Questo pensava Kassem, guardando con un misto di disprezzo e di commiserazione, i ragazzi più vecchi di lui, che, molto spesso, passavano le giornate ad allenarsi in combattimenti alla scimitarra. Gridavano che, la prossima volta, avrebbero affrontato loro Yussuf. Poi, immancabilmente, appena i predoni apparivano, erano i primi a dileguarsi.

Solo suo padre aveva avuto coraggio ed era morto. Ora lui, a tredici anni, doveva lavorare, fino a spaccarsi la debole schiena, per mantenere se stesso e la madre che, da moglie del capo dell’oasi, era diventata solo più una povera vedova.

Questa vicenda si trascinava da tempo.

Il povero Kassem disperava ormai di poter vedere un futuro migliore. Un giorno, mentre stanco e triste stava seduto appoggiato ad una palma, gli si avvicinò Abdullah, uno strano vecchio, che viveva nell’oasi. Il vecchio era solito parlare in modo oscuro, per cui molti non lo capivano, per scherno, lo chiamavano El Rascid, il saggio.

La luce del sole filtrava tra le foglie delle palme, creava strane luci sulle pozze d’acqua. Kassem non si era quasi accorto che gli si era avvicinato.

“Perché il giovane puledro non corre con gli altri e si cimenta con loro?”.

Kassem lo guardò, per lui il vecchio era un amico.

“Sono triste Rascid, vedo tutti i ragazzi che giocano a battersi contro Yussuf poi, quando arriva, fuggono come topi. Io devo lavorare duro per aiutare mia madre. Penso anche che, l’unico che ha osato affrontare quel cane è stato mio padre. Ora è morto. Nessuno ricorda il suo coraggio. Mia madre non è più riverita come una volta. Saggio, perché Allah si è dimenticato di noi?”.

“Ragazzo, non pensare in questo modo, Allah è grande e misericordioso, ma le sue vie a volte sono oscure. Ha voluto mandarci una prova; tuo padre l’ha superata, ora è nel suo Paradiso”.

“Come fai a dire che l’ha superata, o saggio? È morto e nessuno lo ricorda”.

Rispose Kassem con voce triste: “Non è importante vincere o perdere, è importante inserirsi nei disegni di Allah. Rifletti anche su questo: se Allah manda le cavallette, manda anche il vento per disperderle”.

Detto questo se ne andò, lasciando Kassem solo, con i suoi pensieri, più confuso di prima.

Passarono alcuni giorni, venne il tempo della luna nuova. Una piccola carovana venne all’oasi per abbeverarsi.

Si trattava di una carovana talmente povera, che gli abitanti di Tigrat, non avrebbero quasi fatto caso al suo passaggio se, da uno dei cammelli, non fosse sceso l’uomo più strano che mai, a memoria d’uomo, si fosse visto nell’oasi.

Non era alto, ma robusto, il suo colorito differiva sia da quello dei veri credenti che da quello degli infedeli che venivano dal mondo dei cristiani. La sua pelle aveva un colore simile piuttosto a quello delle olive chiare. I suoi capelli erano nerissimi, ma lisci, duri, setolosi: sembravano quasi il pelo di un animale selvatico. Il viso era squadrato, con gli zigomi alti e sporgenti. Soprattutto si faceva notare per il taglio degli occhi: due strette fessure, a forma allungata che esprimevano un distacco e una freddezza inusuali.

Vestiva un’ampia casacca azzurra e una specie di sottana dello stesso colore, che arrivava quasi fino ai piedi. Calzava sandali sottili. Al fianco sinistro portava una spada, in un fodero di legno, intarsiato in avorio. Non era curva, come le lame arabe, più diritta e lunga; anche l’impugnatura si faceva notare per la sua lunghezza. I suoi modi erano gentili, ma decisi e distaccati. Il suo incedere era solenne quasi regale. La singolarità del personaggio e la fermezza del suo comportamento avevano talmente colpito gli abitanti dell’oasi, che lo guardavano ammutoliti, come ipnotizzati.

Lui guardò tutti con faccia impassibile poi si rivolse a El Rascid.

“Come ti chiami vecchio?” disse con una forte cadenza straniera “con te voglio parlare.”

“Mi chiamo Abdullah, ma tutti mi chiamano El Rascid”.

“Abdullah, in nome di Allah, se tu dunque parli in suo nome, è giusto che ti chiamino il saggio. Ascolta o saggio, voglio fermarmi per qualche tempo in quest’oasi. Voglio una tenda, pagherò bene, lavorerò con voi e per voi”.

“Se questo vuoi o forestiero, lo avrai, ma dimmi da dove vieni?”.

“Da tanto lontano che se te lo dicessi, non mi crederesti” tagliò corto lo straniero.

L’interesse per il denaro, la curiosità e la comodità di poter disporre di due forti braccia in più, avevano fatto sì che nessuno si chiedesse perché era venuto proprio lì, e per quali motivi. O meglio, nessuno tranne Kassem.

Il giovane corse da El Rascid e gli chiese: “Saggio, chi è quest’uomo, da dove viene, perché si è fermato qui?”.

Il vecchio lo guardò con aria indifferente.

“Allah Kerim” rispose e se ne andò.

Lo straniero era un uomo silenzioso. Non parlava mai. Se qualcuno gli chiedeva il perché della sua venuta, non rispondeva. Guardava fisso l’interlocutore con quegli occhi sottili e freddi, che incutevano soggezione. Così gli altri se ne andavano senza risposta. Lavorava sodo, sempre in silenzio. Passava lunghe ore solo, nella sua tenda. Nessuno osava disturbarlo. Faceva lunghi discorsi con El Rascid, che ora, grazie a questa amicizia, nessuno dileggiava più.

Qualcuno aveva chiesto al vecchio cosa si dicessero.

“Allah non vuole che si dica in pubblico, cosa è stato confidato in segreto” era stata la risposta. Non c’erano più state domande.

Un giorno, l’uomo, il cui nome era Hiro, si avvicinò a Kassem. Gli disse che lo avrebbe pagato bene, se gli avesse tenuto in ordine la tenda. Il ragazzo accettò con piacere. Hiro gli aveva parlato. Si fidava di lui. Finalmente qualcuno si ricordava del figlio della vedova dello sfortunato capo villaggio.

Entrato nella tenda, non fu colpito tanto dai ricchi abiti esotici del forestiero, quanto dalla spada, dal fodero di legno, intarsiato in avorio.                                             

Istintivamente, la prese in mano. Stava per sfoderarla, quando incontrò lo sguardo dello straniero. Comprese che non doveva farlo. Lavorò per qualche ora, sotto lo sguardo di Hiro, che stava seduto, in un modo che non aveva mai visto, immobile come una statua. Uscirono insieme. Videro i giovani, che si allenavano con le scimitarre.

Gridavano forte che avrebbero ucciso Yussuf, quando si fosse presentato. Kassem raccontò a Hiro dei predoni, della morte di suo padre e di come i giovani sembrassero lupi, per poi diventare pecore, davanti al lupo vero. Aggiunse anche che Yussuf era molto forte e che la lama di Damasco lo rendeva invincibile.

Per un attimo il volto imperscrutabile di Hiro cambiò espressione. Tuttavia, Kassem non riuscì a capire i pensieri dell’uomo.

La vita, nell’oasi, continuò monotona, fino a che un giorno l’evento temuto si verificò: Yussuf, con i suoi predoni, piombò su Tigrat. I giovani, come al solito, se la diedero a gambe. Kassem corse a prendere arco e frecce. Si mise sul tetto di una capanna. Hiro si trovava nella sua tenda. Fu destato dalle urla delle donne.

Solo El Rascid era tranquillo, guardava lontano le nuvole, che correvano in un cielo solitamente limpido.

Yussuf scese da cavallo, ghignando beffardamente.

“Figli di cani, anche questa volta vi lascerete derubare senza difendervi? Pensate forse che Allah aiuti i vigliacchi? Avanti, venite a battervi con me, ho proprio voglia di veder scorrere il sangue di qualcuno di voi!”.

Detto questo lui e i predoni scoppiarono in fragorose risate.

Le risate, questa volta furono brevi: Hiro era venuto a porsi di fronte a lui.

Non aveva detto una parola, la mano destra sull’elsa della spada e la sinistra sul fodero, indicavano chiaramente le sue intenzioni. Gli occhi sembravano fessure, ancora più sottili del solito. Il viso, come sempre, non lasciava trapelare niente.

Yussuf si era fatto serio. Quell’uomo, così diverso da tutti quelli incontrati nella sua vita, lo sconcertava. In tutti gli avversari che lo avevano sfidato, aveva potuto leggere sentimenti di paura, di ansia, di insicurezza, di eccesso di fiducia, ma ora no.

Questo volto non tradiva nessuna emozione. Non un sentimento si leggeva sulla faccia di Hiro. Eppure, si trovava lì, pronto a morire per greggi che non erano le sue greggi, per gente che non era la sua gente.

Era concentrato, come chi sta facendo qualcosa di importante sì, ma non rischioso.

Il silenzio fu rotto da Kassem, che gridò a El Rascid “Fermalo saggio, Yussuf lo ucciderà!”.

“Come non puoi fermare il vento, così non fermerai quest’uomo” rispose il vecchio.

Intanto i due contendenti si stavano studiando in silenzio: Yussuf con la lama di Damasco impugnata a due mani, alta davanti alla testa, Hiro sempre con la spada al fianco, una mano sull’elsa, l’altra sul fodero di legno.

Improvvisamente, il silenzio fu rotto da un urlo, che gelò il sangue a tutti. Era un urlo di una ferocia disumana, più terrificante di quello che qualsiasi belva feroce fosse capace di emettere.

Contemporaneamente, si sentì un rumore metallico e un tonfo. Tutto era stato così rapido, che ci volle un momento, prima che, sia gli abitanti dell’oasi, sia i predoni si accorgessero che il corpo di Yussuf giaceva a terra senza vita, mentre la sua testa rotolava lungo la duna. La lama di Damasco giaceva a terra spezzata. Hiro puliva la lama della sua spada.

Il primo a riaversi, fu Kassem, che incominciò a scagliare dardi contro i predoni. Questi vedendo il loro capo ucciso, un altro colpito da una freccia di Kassem, si diedero alla fuga: non sarebbero tornati mai più.

Tutti corsero a fare festa a Hiro, ma lui, con il suo solito atteggiamento, scostò la gente, chiamò Kassem ed El Rascid.

Prima si rivolse al ragazzo e gli disse: “Volevi vedere la mia spada Eccola: si chiama Katana. Ora puoi impugnarla perché la sua lama ha bevuto il sangue. Ricorda, una Katana si snuda solo per combattere. Mi congratulo con te giovane uomo, hai avuto più coraggio di tutti, in questo villaggio. Sei stato degno figlio di tuo padre. Un giorno sarai tu il capo di quest’oasi. Adesso cresci, con i consigli di El Rascid. Che nessuno osi schernire mai più il saggio, solo perché le parole di saggezza sono troppo difficili, per la sua mente. Ricordate, saranno sempre gli stolti a dileggiare i saggi, mai i saggi a dileggiare gli stolti”.

Il giorno dopo, una carovana passò per l’oasi, Hiro partì con essa, scomparendo nel nulla, come dal nulla era venuto.

Francesco Cordero di Pamparato

Fine terza puntata - Continua

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Articolo pubblicato il 15/11/2020