Alle origini del dibattito sulle autonomie locali in Italia

Una sintetica introduzione della prof.ssa Cristina Vernizzi, Presidente dell’Associazione Mazziniana per il Piemonte

Il dibattito politico sulla forma istituzionale dello Stato Nazionale Italiano, centralizzata o con forme di decentramento e di autonomie locali, non ha riscosso grande attenzione nell’opinione di coloro che potevano partecipare, in modo significativo, al moto risorgimentale.

Infatti, la scelta “centralistica” trionfò prepotentemente per motivi che, in questa circostanza, non è il caso di riproporre.

Carlo Cattaneo e Giuseppe Mazzini hanno rappresentato queste due visioni istituzionali e politiche, a quel tempo inconciliabili. Tuttavia, entrambi non ebbero successo, lasciando il passo alla soluzione della monarchia costituzionale, rappresentata dai Savoia.

La storia di questi eventi è complessa e l’approfondimento, necessario per coloro che si avvicinano a queste tematiche risorgimentali, richiede uno spazio adeguato e senza i vincoli della sintesi e delle semplificazioni.

Ci giunge in merito un articolo della professoressa Cristina Vernizzi, Presidente dell'Associazione Mazziniana per il Piemonte, che riesce magistralmente a conciliare la sintesi con il rigore necessario per illustrare gli argomenti trattati.

Nel ringraziare l’Autrice, per la sua preziosa collaborazione, auguriamo una buona lettura (m.b.).

 

Alle origini del dibattito sulle autonomie locali in Italia

Quando Mazzini e Cattaneo si incontrarono per la prima volta a Milano nell’aprile 1848, erano i giorni che seguivano la ventata rivoluzionaria delle cinque giornate di Milano. Li univa il comune scopo di rendere l’Italia libera dal giogo austriaco, indipendente e repubblicana.

Ma ciò che li divideva una volta raggiunto l’obiettivo, era la forma istituzionale che avrebbe dovuto essere data al nuovo governo. A queste divergenze contribuivano la rispettiva preparazione culturale e le diverse esperienze di vita.

L’uno era l’esule genovese che ritornava dopo 17 anni, condannato a morte in contumacia, reo di aver attentato alla sicurezza dello Stato. Educato in ambiente giansenista e democratico, si era avvicinato prima alla Carboneria e poi aveva fondato la Giovine Italia, libera associazione alla luce del sole.

Nel lungo esilio londinese aveva respirato la libertà dovuta ad una monarchia costituzionale e alla forza della unità nazionale. Dopo tanti scritti ora vedeva giunto il momento dell’azione e si trovava pronto quindi anche a prendere le armi, convinto assertore che gli Italiani si sarebbero liberati da sé con moti spontanei rivoluzionari, come nell’arco di quel mitico 1848 stava avvenendo in Italia e in Europa.

L’altro era lo scrittore economista, allievo di Romagnosi, formatosi alla scuola lombarda empirica e scientifica. Aveva preso in mano la situazione del Governo provvisorio che si era insediato a Milano, ne era divenuto il capo e trattava con competenza con le residue autorità austriache presenti sul territorio. Chiamò Mazzini a farvi parte.

Tra i due si manifestarono le divergenze durante l’andamento della guerra regia, quando Cattaneo apparve a Mazzini come un “municipalista”, ma fu un litigio subito ricomposto per fronteggiare l’offensiva austriaca che purtroppo ebbe la meglio. A fine anno a Roma si creavano le premesse per una Repubblica che faceva illudere l’esule genovese che fosse il preludio di uno unico stato con Lombardia e Veneto, ancora in subbuglio.

Da parte sua Cattaneo, deluso, si ritirava nella svizzera Lugano dove rimase quasi ininterrottamente, amico sempre di Mazzini dal quale ebbe conforto sul letto di morte.

Le convinzioni di entrambi partivano dalle considerazioni storiche sull’età medioevale, dove le libertà dei Comuni erano interpretate diversamente.

Per Cattaneo erano l’esempio di buone autonomie locali in cui una loro federazione avrebbe prodotto una libertà comune repubblicana: federalismo come principio di libertà.

Era quindi propugnatore dell’esperienza degli Stati Uniti d’America, dove evidenziava come il potere centrale mantenesse l’unità nazionale di stati che si governavano liberamente per quanto riguardavano gli interessi locali, ma gli interessi di carattere generali erano gestiti dai rappresentanti federali.

Sono in gran parte i principi che regolano le nostre Regioni dalla loro costituzione nel 1972.

Si spingeva poi a delineare gli Stati uniti d’Europa, sempre in forma federale.

Per Mazzini l’età comunale aveva rappresentato le spiccate e inconciliabili diversità del nostro Paese. A suo parere ne erano sorte profonde discrepanze sociali ed economiche, la nascita delle Signorie e in fine dei Regni ancora presenti nell’Italia dell’800.

Per il patriota occorreva un’ampia rete di sommosse che scuotessero l’Italia e che con un moto unico che partisse dal Sud Italia giungessero alla unificazione centralizzata, ma con ampio spazio alle autonomie locali, come volle scritto nella Costituzione della Repubblica Romana del 1849. Anche per il patriota, era prevista una nuova Giovane Europa.

Nel frattempo, entrava nella politica attiva il liberale Camillo Cavour, di famiglia tradizionalmente fedele alla dinastia sabauda, che guardava agli ampliamenti del piccolo regno come l’opportunità di acquisire miglioramenti economici e prestigio internazionale. Da questo momento, conosciamo la sua attività instancabile: ad un iniziale stato unitario che comprendesse solo l’Italia del Nord e del Centro, si piegò al disegno mazziniano e garibaldino di unificazione di tutta la penisola. In soli tre anni dal 1859 al 1861, si ebbe l’unità, con l’esclusione del solo stato pontificio.

Subito si presentava il problema del governo di zone così disparate, soprattutto la difficoltà della estensione dello Statuto di Carlo Alberto là dove i territori preunitari apparivano essere dotati di leggi più avanzate rispetto al Piemonte. Per affrontare il grande disegno di unificazione amministrativa Cavour chiamò come consulenti famosi uomini del Sud, esuli a Torino, avvocati come Pisanelli, Scialoja, Pasquale Stanislao Mancini, che compilarono il Codice di procedura civile per gli stati Sardi.

Su incarico del primo ministro, fu Mancini a lavorare per l’unificazione legislativa del nuovo Regno. Il problema era arduo e fu dibattuto da più parti, sia dai conservatori che miravano ad un ordinamento centralizzato, sia dai democratici sensibili alle istanze locali.

Cavour avviò quindi un raffronto tra le legislazioni preesistenti nei vari stati, ma la sua improvvisa fine troncò un percorso che egli aveva iniziato e che, sull’esperienza maturata come sindaco a Grinzane, sarebbe probabilmente sfociato in una soluzione se non federale, certo con attribuzioni di maggior autonomia locale.

Gli anni successivi, con l’insorgere di rivendicazioni da parte degli antichi sovrani spodestati, spesso sostenuti anche dalla Chiesa, e l’esigenza di dare l’immagine di un paese dotato di forte unità politica di fronte alle potenze europee tra cui si poneva il nuovo Regno, misero a tacere tutti i dibattiti in questa direzione.

Inoltre, il Paese doveva affrontare una pesante politica finanziaria che con Quintino Sella giungeva al pareggio del bilancio con la esecrata tassa sul macinato e parallelamente l’insorgenza di autonomie storiche, come quella della Sicilia e il fenomeno del brigantaggio.

Di conseguenza la forma di un governo centralizzato come si ebbe agli inizi, rimase stabile: non fu la migliore, ma venne considerata l’unica possibile per quei tempi, come lo stesso meridionalista Gaetano Salvemini avrà a dichiarare nella prima metà del ‘900.

Cristina Vernizzi

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Articolo pubblicato il 21/11/2020