San Giuseppe Cafasso: un Santo straordinario nell'ordinario

L’amore divino fu l’anima di tutta la sua esistenza

Perché occuparsi di santi nell’epoca del Covid mentre tutti sono lì ogni mattina a snocciolare numeri sui contagiati, sulle regioni rosse, gialle o arancione. Basta occupiamoci dell’anima, come faceva don Giuseppe Cafasso, sacerdote piemontese che ha operato a Torino nell’Ottocento dei governi liberali e massonici. Riflettiamo sulla pandemia come fa ogni mattina padre Livio Fanzaga dalla sua Radio Maria.

Da tempo dovevo leggere e studiare i libri su Cafasso che gentilmente ho ricevuto da una operatrice del Santuario della Consolata a Torino.

In altre occasioni ho scritto che in Italia avremmo bisogno di italiani seri, come la numerosa gloriosa schiera di santi, beati, venerabili, servi di Dio, ma anche uomini e donne, non riconosciuti dalla Chiesa, che sono vissuti proprio nell’Ottocento piemontese.

Ne ricordo qualcuno: oltre al Cafasso, san Giovanni Bosco, san Giuseppe Cottolengo, san Leonardo Murialdo, il beato Faa di Bruno, beato Allamano e tanti altri. “Tutti costoro formano una schiera valorosa di eroi, che, attratti dalla forza misteriosa della carità, attinsero lumi, ispirazioni e conforti dal Cafasso, che li guidò e li sostenne in quelle opere di beneficienza e di previdenza sociale”.

Tra l’altro in particolare, “senza S. Giuseppe Cafasso noi non avremmo avuto S. Giovanni Bosco, e probabilmente neppure avremmo avuto la Congregazione Salesiana.”. Lo scrive Eugenio Valentini, nella presentazione al volumetto su “San Giuseppe Cafasso. Memorie pubblicate nel 1860 da san Giovanni Bosco”, (SEI, 1960).

“Fu egli che lo consigliò, lo guidò nella scelta dello stato, lo formò nel Convitto Ecclesiastico, e poi lo diresse, lo difese e lo sostenne nei momenti difficili della vita […] Don Cafasso è stato per Don Bosco il Maestro, il Direttore spirituale, il Confessore, il Benefattore per eccellenza”.

S. Giuseppe Cafasso fu definito da papa Benedetto XV, “la perla del clero”. Il Cafasso viene ricordato principalmente in cattedra, con le sue lezioni di teologia Morale, grande educatore di tanti suoi confratelli. Sul pulpito, un grande predicatore e poi un instancabile visitatore delle prigioni torinesi e quindi un accompagnatore dei condannati alla forca. Infine, Cafasso, viene ricordato, soprattutto nel confessionale dove passava lunghe ore della giornata. A questo proposito è stato scritto un interessante volumetto da monsignor Angelo Grazioli, “La pratica dei confessori”, (Libreria Editrice Cristiana, 1960).

Giuseppe Cafasso nacque a Castelnuovo d’Asti il 15 gennaio 1811, paese dove è nato anche san Giovanni Bosco. Non è facile descrivere lo splendore di santità di S. Giuseppe Cafasso, “Siamo nati per amare, egli diceva, viviamo per amare, moriremo per maggiormente amare”.

In Occasione del 1° centenario della morte di S. Giuseppe Cafasso è stata pubblicata la ristampa della 3° edizione del libro del cardinale Carlo Salotti a cura del Santuario della Consolata (1960, Torino). “La perla del clero italiano. San Giuseppe Cafasso”. Utilizzerò quest’ultimo libro per presentare la figura del santo torinese.

“L’amore divino - scrive il cardinale Salotti - fu l’anima di tutta la sua esistenza e l’aspirazione costante del suo cuore purissimo […] Era evidente – attestò il teologo Felice Reviglio - che non operava che in ordine a Dio. Le sue conferenze, cui assistetti, erano dirette non solo all’insegnamento della morale, ma miravano a formare il cuore dei sacerdoti ed accenderli di zelo per la gloria di Dio”.

Pertanto, puntualizza monsignor Salotti, “Il valore del soldato si afferma sul campo di battaglia nell’ora del pericolo, di fronte al nemico che semina la strage. La genialità dell’artista si rivela sulla tela o sul marmo, ove egli lascia l’impronta delle sue ispirazioni. L’affetto di una madre si palesa alla culla del bambino malato. L’amore di un sacerdote verso Dio si manifesta soprattutto sull’altare, dove, trattando i divini misteri, vede dinanzi a sé il Verbo fatto carne, e da questa carne divina trae alimento per vivere di purezza e per lottare con coraggio”.

La biografia del cardinale fa riferimento all’ampia e documentata penna di don Luigi Nicolis di Robilant. Il Salotti nello scrivere il testo si augura che i suoi confratelli nel sacerdozio ritrovino in Cafasso, “quella luce fulgidissima, che irradiò la santa vita di questo nobile atleta della fede, campione insigne di perfezione sacerdotale”.

Inoltre, il cardinale si augura che il clero italiano, camminando sulle orme del Cafasso, riesca a restaurare interamente “il senso cristiano nell’animo dei cittadini, ed a richiamare il popolo alle tradizioni gloriose di fede e di pietà che ci tramandarono gli avi”. Continuando nelle sue intenzioni il cardinale pensa che il miglior omaggio che si possa fare a Cafasso, è quello di studiare e di meditare quello che ha fatto in tutta la sua vita. Chissà se oggi queste intenzioni del cardinale Salotti vengono recepite nei seminari dove vengono istruiti i pochi futuri sacerdoti.

La biografia conta di XV capitoli con due sole icone, (a matita di grafite), da ex insegnante le trovo molto significative ed edificanti, la prima, “il piccolo predicatore”; la seconda, quella del Cafasso, sul palco della forca.

Naturalmente non possiamo approfondire le innumerevoli caratteristiche del santo. Il II capitolo ne descrive le caratteristiche comportamentali del Cafasso, la sua cultura, i suoi riferimenti a S: Ignazio a S. Alfonso. L’immobilità che assumeva durante la preghiera, l’esercizio della infinita pazienza certe occupazioni. La sua cura della perfezione e soprattutto di non perdere mai un istante di tempo.

“L’aspetto, lo sguardo, il vestire, il camminare, il parlare, in un ministro di dio, deve essere tale da suscitare sempre edificazione nel prossimo. L’atteggiamento fisico ed esterno giova immensamente alla propaganda del bene, giacché facilmente dai tratti esteriori, umili e composti, ciascuno si sente portato a farsi soggiogare da una forza, la quale non è che il riflesso della santità che si nasconde nello spirito”. Al contegno fisico corrispondeva il contegno morale. Predicando ai sacerdoti amava confidare che “l’ecclesiastico è un uomo speciale e segregato dagli altri, quasi trasformato in una nuova creatura tra Dio e gli uomini”.

Il III capitolo descrive il Cafasso in cattedra, da ripetitore nel Convitto Ecclesiastico a diventare poi Rettore. Giuseppe Cafasso fu un formatore di sacerdoti, ma anche di laici. “La regione subalpina aveva bisogno allora di preti che fossero dotti e pii, e che al tempo stesso alla dottrina ed alla pietà accoppiassero quel senso di disciplina e di discrezione, che, oltre il mantenerli in armonia agl’insegnamenti ed alle direttive della Chiesa, li ponesse in condizione di fronteggiare gli avvenimenti e di non farsi travolgere dagli errori e dalle passioni del tempo”. Ci sarebbe da aggiungere che anche oggi siamo nelle stesse condizioni.

S. Giuseppe Cafasso proponeva sana dottrina e buona comunicazione. Occorreva attingere a fonti dottrinali sicure, “che gli permettevano, anche nelle questioni più ardue e delicate, di proferire un giudizio retto che tranquillizzasse le coscienze”.

Il nostro era un mirabile e potente comunicatore, era un dono divino, che si rifletteva sulla cattedra del maestro. Per il santo, l’istruzione era pure eduzione, “illuminare e dirigere l’intelligenza era lo stesso che illuminare e guidare il cuore; l’insegnamento era formazione di anime; la scienza delle cose morali non doveva essere pura astrazione, ma fiamma che ravvivasse la pietà”.

L’attenzione del Cafasso era diretta anche alla sacra eloquenza, sul pulpito deve affermarsi la parola di Dio, non quella dell’uomo. “La parola di Dio deve allettare, non spaventare. Anche trattando delle massime eterne, bisogna guardarsi dall’accrescere i dolori e le angustie di chi ascolta, e dall’esagerare i castighi di Dio”. Il santo raccomandava sempre di preparare la predica, “nulla di più deplorevole che il parlare senz’ordine, con confusione e male a proposito”.

Il IV capitolo si occupa degli errori del tempo: il Giansenismo e il Rigorismo.

Il Piemonte vicino alla Francia è stato influenzato dall’eresia giansenista, “il Dio predicato da tali eretici, non era il Dio di bontà e di misericordia quale ci era scaturito da tutta la tradizione cristiana, ma era un tiranno che si compiaceva di respingere il peccatore e di lasciarlo morire nel suo peccato”. Poi dalla pianta del giansenismo nacquero le dottrine rigoriste. Per certi teologi la minima infrazione alla legge anche dubbia diventava una colpa grave. Tuttavia, il Cafasso combattendo il Rigorismo, non si piegò mai al Lassismo.

 

Un altro pericolo da debellare nel suo tempo fu il Regalismo, che tendeva a manipolare l’autorità ecclesiale. A questo proposito il cardinale mette in luce come il liberalismo, cercava di smantellare le fortezze spirituali della Chiesa. “Nel nome del patriottismo si smascherava una guerra formidabile al clero, alla religione ed al Papato; guerra che con sottili accorgimenti e con odio implacabile veniva nascostamente tramata dalle sette”.

Tuttavia, il cardinale Salotti ci tiene a precisare che il Cafasso inculcò ai suoi alunni l’astensione assoluta da tutto ciò che potesse avere una parvenza politica. “La politica del prete è la salvezza delle anime”.

Interessante il VI° capitolo sul rinnovamento del clero. Il cardinale elenca i precursori, che hanno anticipato i santi sociali torinesi dell’Ottocento.

 

La rivoluzione antireligiosa causata dalle teorie gianseniste e gallicane furono combattute da un calvinista convertito, Nicolao di Diesbak, abbraccia il cristianesimo e diventa un soldato di Cristo, si stabilisce a Torino e fonda l’Amicizia cristiana, allo scopo di diffondere l’amore verso Gesù Cristo, di difendere la Chiesa e confutare gli errori del tempo. Discepolo del Diesbak fu Pio Brunone Lanteri di Cuneo che raccolse la bandiera, il programma e ne seguì l’apostolato con un ardore e con una diligenza, che rivelarono in lui il genio precorritore dei tempi ed il campione indefesso della causa cattolica. In questa associazione si forma un discepolato di giovani laici e sacerdoti, e li addestra alle battaglie contro l’errore. Dall’Amicizia cristiana viene preparato il giovane studente Luigi Taparelli d’Azeglio, soldato della compagnia di Gesù, il filosofo acuto e il difensore strenuo delle verità cattoliche.

 

Nel VII° capitolo Salotti descrive “Le gioie dell’apostolato”, di S. Cafasso, in particolare attorno alla Chiesa di S. Francesco e il Convitto ecclesiastico, i centri del suo apostolato. L’VIII° capitolo si occupa del confessionale, dove legioni di penitenti affluiscono per confessarsi da don Cafasso. Accorrono anche membri insigni del Parlamento nazionale, i migliori uomini della nobiltà e dell’aristocrazia piemontese, i personaggi più ragguardevoli di quell’epoca, attribuivano a proprio onore essere guidati e illuminati nello spirito dal nostro tempo.

Una caratteristica esemplare del santo torinese è quello di assistere i morenti al loro capezzale degli infermi, per soccorrerli nell’estremo bisogno. Il Salotti racconta alcuni episodi di persone moribonde in fin di vita.

 

L’XI° capitolo “Dal carcere al patibolo”, qui si percorre il ministero del santo nelle varie carceri di Torino. Un lavoro di apostolato difficile con i detenuti che Cafasso soccorreva in tutte le maniere a lui possibili. “Per renderseli sempre più benevoli e per condurseli a Dio, faceva elargizioni molto copiose non solo ai detenuti, ma anche ai custodi, perché li trattassero bene. Denaro, tabacco, pane, companatico, vino, frutta e capi di vestiario, tutto poneva a loro disposizione”.

L’autore della biografia, precisa che tra il santo e i prigionieri era nata una familiarità quasi intima. Il Cafasso, “ne gioiva per istruirli nella verità della fede e per condurli sulle vie del bene. Tutte le volte che si recava nelle prigioni non lasciava mai di far un po' di catechismo, sebbene non avesse l’aria di farlo”.

Ma il Cafasso si distinse anche nel dare l’ultimo conforto ai condannati a morte, non è mai mancato di stare vicino a chi doveva affrontare la morte, cercando in tutti i modi di poter salvare la loro anima. Il Cafasso fu inteso addirittura come il prete della forca.

 

Il tema mi ha incuriosito perché noto che il santo faceva di tutto per assistere questi poveri disgraziati, ma non si sognò mai di osteggiare la pena capitale in vigore nello Stato sabaudo.

Il testo del cardinale offre diversi e interessanti episodi sulla ricca e splendida vita sacerdotale del nostro santo, anche quando si accingeva a lasciare questa terra, don Cafasso ha preparato accuratamente in un certo senso la sua dipartita. “Esso viveva – dichiara un testimone – tutti i giorni come uno che ha le valigie fatte, il suo passaporto fresco, in procinto di partire”.

 

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Articolo pubblicato il 20/11/2020