20 settembre 2020: 150°anniversario della breccia di Porta Pia a Roma

Un interessante articolo del sen. Giulio Andreotti in occasione del centenario del 1970 (prima parte)

Il 20 settembre 2020 si è celebrato il 150° anniversario della presa di Roma papalina, attraverso l’azione militare di Porta Pia, da parte dell’esercito italiano. Terminava così il potere temporale del Papa.

A questo evento storico si sono dedicati fiumi di inchiostro e diversificati approfondimenti che ne hanno proposto nel tempo differenti e contrapposte interpretazioni ideologiche. Se per quanto concerne gli aspetti politico-militari si può asserire che non dovrebbero più esserci sfaccettature inedite o inesplorate dagli studiosi, non altrettanto si può dire per la “lettura” dell’intera vicenda che ha subito nel tempo una vera evoluzione e che appare tuttora suscettibile di ulteriori ripensamenti e visioni.

Pare pertanto interessante riproporre questo articolo del senatore Giulio Andreotti pubblicato dalla “Domenica del Corriere” dell’11 agosto 1970, in un suo numero speciale dedicato ai cento anni di Porta Pia. Un articolo datato quindi, perché di mezzo secolo fa, ma ancora significativo e curioso per l’autorevolezza dell’autore e per il contesto politico in cui è stato scritto.

Ringraziamo la Direzione del periodico “fiamma cremisi” che lo ha riportato nel suo numero 5 di settembre - ottobre 2020 e che ci ha concesso di riproporlo anche ai nostri Lettori (m.b.).

Il giorno più lungo di Roma Capitale

Il disegno politico di fare di Roma “la splendida capitale del Regno” - come annunciò nel 1860 il Conte di Cavour nel Parlamento subalpino - occupò per un decennio la diplomazia italiana e, a fianco delle iniziative ufficiali, vi fu una serie di tentativi per arrivare a conseguire lo storico obiettivo senza spargimento di sangue e evitando irreparabili complicazioni internazionali. Nel 1864, quando il Ministero Minghetti decise di trasportare la capitale da Torino a Firenze, alcuni ritennero che si stesse rinunciando al proposito cavouriano riguardante Roma, confortati anche dalle notizie di quanto l’ambasciatore a Parigi, Costantino Nigra, aveva comunicato al governo francese: che cioè la scelta di Firenze significasse rinuncia alla conquista dello Stato Pontificio. Torino in quell’occasione insorse e si ebbe un conflitto con 51 morti e 200 feriti, al quale seguì, secondo una prassi che non sarebbe mai stata successivamente smentita, un larghissimo provvedimento di amnistia. Il Minghetti fu congedato, sostituito nel governo da Alfonso La Marmora, il quale riuscì a far approvare dal Parlamento la Convenzione, firmata il 15 settembre con la Francia, secondo la quale entro due anni le truppe francesi avrebbero lasciato Roma mentre l’Italia si impegnava “a non attaccare il territorio attuale del Santo Padre e a impedire anche con la forza ogni attacco esteriore contro detto territorio”.

Sotto la lettera di questo documento vi era una esplicita riserva per il caso di sommosse popolari in Roma tendenti a rovesciare il regime papale; e non occorreva molta fantasia per immaginare che al momento giusto sommosse del genere potessero essere organizzate o almeno favorite. Il governo Rattazzi, succeduto al Ricasoli che aveva sostituito La Marmora, dimostrò una volontà energica facendo arrestare Garibaldi a Sinalunga quando stava per marciare contro lo Stato Pontificio avendo fatto apertamente arruolamenti a questo scopo. Vittorio Emanuele II, in un proclama agli italiani, definì i garibaldini guidati dal figlio dell’eroe dei due mondi, Menotti: “schiere di volontari eccitati e sedotti dall’opera di un partito senza autorizzazione mia né del mio governo”. La reazione di tutto il mondo avanzato della politica italiana fu immediata e la presa di posizione ufficiale non riuscì nemmeno a tranquillizzare la Santa Sede; in un messaggio del segretario di Stato cardinale Antonelli al nunzio a Madrid si legge: “È palese che il governo sardo non è estraneo a siffatti moti e che apertamente se non li favorisce presta però tale indiretto aiuto da farlo ritenere pienamente connivente”.

In Vaticano, qualche anno prima, aveva fatto molta impressione la furiosa protesta di Garibaldi quando si era trovato i passi del Tirolo e del Tonale presidiati dalle truppe del Regno; e in una lettera al presidente della Camera, a chiare note egli svelò che si era mosso di intesa segreta con lo stesso ministro che ora mandava “gli sgherri a sbarrargli il passo”. Le due politiche italiane si muovevano con intese sotterranee, anche se non prestabilite con rigore di patti; ed era evidente il desiderio di strumentalizzare la spinta garibaldina senza subirne le conseguenze nei momenti di corsa troppo rapida o di difficoltà nel cammino.

Fu prospettata l’idea di deferire la soluzione della questione romana ad un congresso internazionale di potenze cattoliche e non cattoliche. L’atteggiamento distaccato della Prussia, il freddo agnosticismo dell’Austria e le diffuse preoccupazioni di molti Stati per non guastarsi con il Regno di Sardegna, autorizzavano la diffidenza vaticana che fu concretizzata nella pregiudiziale - per aderire alla conferenza - della restituzione di tutti i territori già sottratti al Papa. In quel momento lo Stato Pontificio era ridotto alle provincie di Roma, Viterbo, Civitavecchia, Velletri e Frosinone, e anche il più ottimista tra i diplomatici non credeva che la convenzione del 1864 potesse salvaguardare questo residuo di Stato. Figurarsi se aveva un senso il parlare della restituzione delle Romagne e delle altre province! Qualche storico, tuttavia, attribuisce alla linea intransigente di Pio IX e del cardinale Antonelli la perdita di tutto lo Stato, ma la questione di principio aveva un valore in un certo senso assoluto che consentiva un margine di manovra estremamente esiguo al Papa. Inoltre, non è privo di basi documentabili il considerare in prospettiva il papato rassegnato a perdere il suo potere temporale.

L’ultimo bilancio dello Stato Pontificio segnava entrate per 30 milioni e uscite per 60 milioni, con l’aggravante che gran parte della pubblica spesa era destinata alle esigenze militari di difesa, il che, per uno Stato spiritualistica, non era davvero l’ideale.

Nel 1870, l’evolversi della situazione europea con la guerra tra la Prussia e la Francia di Napoleone III, segnò l’occasione definitiva per risolvere la questione romana. A Firenze si poterono far votare misure e fondi per una massiccia mobilitazione straordinaria, lasciandosi nel dubbio se questa servisse per portar aiuto alla Francia, in restituzione di quanto era accaduto a nostro favore nel 1859, o per occupare Roma. Sessantamila erano gli effettivi richiamati alle armi e se si pensa che le forze pontificie non arrivavano a quindicimila uomini, la sproporzione si può spiegare con il desiderio di indurre il Papa a non provocare una inutile strage.

Tre telegrammi del ministro degli esteri italiano servono a dare la chiave di quanto avvenne nell’anno. Il primo è del 22 luglio e informa che Nigra era autorizzato a comunicare al governo francese che “l’Italia non avrebbe in alcun modo colto l’occasione degli impegni di guerra della Francia per creare ai francesi imbarazzi sulla questione romana”. Il secondo messaggio è del 2 settembre diretto dal ministro Visconti Venosta al Nigra: “Noi non abbiamo alcuna intenzione di creare dei pretesti per intervenire nel territorio pontificio”.

L’ultimo telegramma è del mattino del 5 settembre indirizzato all’ambasciatore a Vienna Minghetti: “La situazione è cambiata con la Repubblica. Credo che ora è tempo di osare”.

La disfatta francese aveva mutato le condizioni politiche e ormai la via libera per Roma si offriva senza ostacoli al governo italiano. Si deve tuttavia aggiungere che Visconti Venosta, quando parlava di “osare”, si riferiva probabilmente al campo politico e non all’azione militare che fino all’ultimo egli cercò e credette di poter evitare. Il Re e il Governo affidarono una missione impegnativa al senatore Ponza Di San Martino, inviandolo a Roma con una lettera datata 8 settembre ed assai conosciuta nelle sue parole iniziali con le quali Vittorio Emanuele si rivolgeva a Pio IX: “Con affetto di figlio, con fede di cattolico, con animo di italiano m’indirizzo come altre volte al cuore di Vostra Santità”. Il Di San Martino era stato scelto in quanto aveva un fratello gesuita, rettore del collegio di Mondragone, e si sperava di poter fruire di una mediazione della Compagnia di Gesù; ma al mattino del 9, arrivando a Roma, con meraviglia il conte Di San Martino non trovò il fratello nell’albergo e non si è mai saputo se ciò dovesse attribuirsi a cattivo funzionamento del telegrafo o ad una prudenza dei gesuiti. Il conte si incontrò la sera del 9 con il cardinale Antonelli comunicandogli che le truppe italiane avevano già ricevuto l’ordine di entrare nel territorio pontificio e che il suo scopo era quello di ottenere una forma pacifica di accettazione, sulla base della assicurazione che il Regno d’Italia sentiva “come sua prima e più forte preoccupazione quella di mettere il Papa in condizione di rimanere in Roma, libero e sicuro, con tutte le sue istituzioni”.

(Fine della prima parte - continua)

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Articolo pubblicato il 23/12/2020