20 settembre 2020: 150°anniversario della breccia di Porta Pia a Roma

Un interessante articolo del sen. Giulio Andreotti in occasione del centenario del 1970 (seconda e ultima parte)

Il cardinale replicò che si trattava di una vera violenza, neppur motivabile con un pericolo di rivoluzione, dato che le condizioni della città erano tali da escludere questa supposizione. La Santa Sede non poteva rinunciare ad alcuno dei suoi diritti né il Papa poteva legittimare la prepotenza.

Questa fu la tesi che Pio IX ripeté il giorno successivo nella udienza fissata all’emissario straordinario del re Vittorio Emanuele. Tuttavia, questi ebbe la sensazione che l’idea di una difesa armata non sembrava si potesse desumere dalle parole del Papa. Nella sua relazione riferisce che più ancora che per le prospettive di quanto stava per accadere in Roma, il Papa si dimostrava accorato per la carneficina tra francesi e prussiani.

Alla lettera di Vittorio Emanuele il Papa rispose con una missiva piuttosto breve dicendola “non degna di un figlio affettuoso che si vanta di professare la fede cattolica e che si gloria di regia lealtà”; tutto il tono è però mantenuto in un ambito quasi esclusivamente religioso. Il Di San Martino riprese immediatamente la via per Firenze e cominciò subito dopo la marcia dell’Esercito Italiano.

Alle truppe pontificie furono date precise istruzioni per non accettare battaglia in provincia e ripiegare su Roma man mano che i “piemontesi” avanzavano verso le singole cittadine. In Roma, poi, gli ordini che personalmente il Papa dette al Generale Kanzler furono di arrendersi soltanto quando fosse stata aperta una breccia nella difesa della Capitale. Vi erano state controversie in proposito ed il Papa aveva preso l’atteggiamento di salvaguardare nello stesso tempo l’onore dei militari che avevano offerto il proprio servizio e la propria vita alla Santa Sede e l’esigenza fondamentale di risparmiare sangue e lutti.

Il 15 settembre Civitavecchia si arrendeva a Nino Bixio, il quale in una lettera alla moglie scrisse di rischiare di passare per clericale in quanto aveva dato l’ordine di non toccare il panfilo pontificio che era nel porto, limitandosi a far cambiare la bandiera da quella dello Stato a quella personale del Papa. Ormai gli avvenimenti stringevano e l’ambasciatore di Germania Arnim fece inutilmente la spola tra gli assedianti e la segreteria di Stato. L’ordine dell’operazione definitiva venne dato al generale Cadorna (si era volutamente scelto un cattolico per l’alto comando della operazione) il 17 settembre con questo telegramma: “Il governo del re ha deciso che le truppe debbano impadronirsi di forza di Roma salve sempre la Città Leonina”.

Il 20 settembre si svolsero le manovre conclusive e verso le 9 del mattino, non appena aperto un varco nelle mura all’altezza di Porta Pia, le truppe pontificie innalzarono bandiera bianca. Le perdite delle due parti furono: per gli italiani, 13 ufficiali e 43 militari di truppa caduti e 141 feriti; per i papalini 20 morti e 49 feriti.

Nella stessa mattina il Papa aveva voluto celebrare la messa alla presenza del corpo diplomatico ed era apparso piuttosto sereno anche se la sua emozione non potava essere del tutto dissimulata. Una nota quasi comica si ebbe per l’osservanza del cerimoniale, non avendo alcuno pensato a dare ordini in contrario. Essendo infatti previsto che quando il corpo diplomatico assisteva alla messa del Papa si distribuisse subito dopo cioccolato caldo e gelati, mentre prelati della segreteria di Stato arrivavano latori delle comunioni definitive sull’assedio, il personale pontificio avanzava imperterrito nella distribuzione della piccola colazione di gala. Forse inconsciamente si andava applicando quello che il Papa aveva consigliato al re di Napoli nel momento della perdita del potere: “Serva ordinem et ordo servabit te”. Del resto, il Papa stesso, che aveva l’abitudine di comporre degli enigmi, scrisse in quel momento una sciarada: Il tre non oltrepassa il mio primiero. È l’altro molto vasto e molto infido che spesso fa provar l’intero (tre-mare).

Perché mai una sciarada in un momento tanto drammatico? Probabilmente dovendo infondere tranquillità, il Papa sapeva bene che non valevano esortazioni o comunicati; ma l’apprendere che il Pontefice componeva sciarade avrebbe testimoniato, con la rapidità delle notizie ufficiose, che non vi era motivo per drammatizzare la situazione oltre una certa misura.

Un particolare divertente della giornata del 20 settembre 1870, riguarda il funzionamento dei servizi telegrafici. Il Generale Cadorna, da Villa Albani, ogni venti minuti aveva indirizzato un dispaccio a Firenze sullo sviluppo delle operazioni; seppe poi, con stupore e sdegno, che il personale del telegrafo, non avendo ricevuto contrordini sul programma di manutenzione della linea che prevedeva, appunto, per il giorno 20 questo servizio, non aveva ritenuto di dare la precedenza assoluta di Stato ai bollettini di carattere militare che furono trasmessi durante la notte successiva tutti contemporaneamente.

D’altra parte il Ministro degli Esteri Visconti Venosta, che aveva inviato a Roma il Segretario generale del ministero, Blanc, per avere informazioni dirette, nel pomeriggio del giorno 21 era ancora all’oscuro e indirizzava, a sua volta, a Roma il seguente messaggio redatto in lingua francese, che era ancora la lingua ufficiale del ministero degli Esteri: “Noi manchiamo assolutamente di novità su ciò che accade a Roma”.

Cominciava evidentemente per l’Italia la necessità di una rapida riforma dell’amministrazione.

Nel giorno successivo si ebbero tumulti in piazza San Pietro. Il cardinale Antonelli fece chiedere al generale Cadorna di occupare anche la Città Leonina, il che Cadorna fece, pretendendo però - non si sa se per una certa pignoleria personale o per documentarsi dinanzi alla storia - una richiesta scritta della segreteria di Stato.

È interessante notare che gli abitanti della Città Leonina furono trai più zelanti nel plebiscito del 2 ottobre perché se in tutta Roma i “sì” furono 40.765 e i “no” 46, nel seggio della Città Leonina non si ebbe neppure un “no” come avvenne anche al Campidoglio dove era il seggio per i militari. In tema di plebiscito qualcuno ha osservato, con una certa ironia, lo scarsissimo numero di voti nulli in tutto lo Stato Pontificio: 103 schede invalidate su 135.291 votanti. E nelle province di Frosinone e Velletri nemmeno un voto nullo, il che dimostra che erano più bravi di quanto non siano stati i discendenti nel referendum istituzionale del 1946.

Di grande interesse fu l’immediata presa di contatto di alti funzionari governativi con le autorità religiose, a partire dalla stessa mattina del 20 settembre. Si trattò di una premurosa azione volta non solo ad evitare polemiche e speculazioni, ma tale da dimostrare psicologicamente un atteggiamento di rispetto ed un anelito di pacificazione. Il Papa, per suo conto, vedendo dalla finestra i militari italiani che si recavano ordinatamente nella chiesa di San Pietro osservò che erano più devoti delle sue stesse truppe. Quotidianamente vi era una conferenza tra un rappresentante militare, un rappresentante politico ministeriale e lo stesso cardinal Antonelli o altro alto ufficiale della segreteria di Stato. Si dipanavano piccole controversie e si provvedeva alle inevitabili beghe per gli alloggi, per le installazioni degli uffici, per una impostazione giuridica sulla natura patrimoniale del Quirinale. Preoccupato di non suscitare motivi di emozione internazionale con incidenti in Roma il governo arrivò persino a misure profondamente ingiuste nei confronti di Garibaldi e Mazzini: soltanto un giornalista ingenuo come il corrispondente del “New York Times” poteva credere che stessero per essere nominati ministri del Regno. Garibaldi aveva dato molto da fare al ministro degli Esteri per il proposito di recarsi in Francia a combattere a fianco di Napoleone III e con una certa disinvoltura Visconti Venosta aveva dato istruzioni al rappresentante italiano a Berlino di comunicare che “il generale Garibaldi ha cessato da vari anni di essere iscritto nei ruoli del Regio Esercito”. Il Primo Ministro in persona, Giovanni Lanza, l’8 settembre aveva spedito due telegrammi in Sardegna e a Gaeta dando ordine alle prefetture di usare la massima vigilanza perché la fuga di Mazzini “in questi momenti creerebbe seri imbarazzi al governo” ed analoga sorte avrebbe avuto la “presenza sul continente” di Giuseppe Garibaldi.

Mazzini, arrestato a Palermo, era in fortezza a Gaeta e non fu lasciato libero che il 15 ottobre, quando il governo ebbe l’assoluta certezza che non poteva risvegliarsi un moto repubblicano in Roma. Negli archivi del ministero dell’Interno si conservano i messaggi datati 16 ottobre 1870 spediti dal consigliere di luogotenenza Luigi Guerra, distaccato in Roma, al ministro dell’Interno a Firenze: “Nel pomeriggio di ieri Mazzini arrivò qui. Nessuno lo aspettava alla stazione”.

“Mazzini partito per Livorno col treno delle 10.15 di stamane”.

Vittorio Emanuele II, intanto, emozionato per la solenne deplorazione da parte di Pio IX, era molto dubbioso se venire o no a Roma ed arrivò persino a minacciare l’abdicazione facendone preparare il testo. Venne in soccorso dell’esitazione regale e delle non facili trattative di governo, una grande calamità: l’alluvione che, sul finir di dicembre, allagò la zona centrale di Roma. I diplomatici che avevano faticato molto per trovare una linea di condotta non ebbero modo e tempo per dover assumere un atteggiamento. L’ambasciatore d’Inghilterra aveva telegrafato a Londra: “Cosa debbo fare se il Re viene a Roma; ignorare l’avvenimento come penso sarà fatto dai diplomatici accreditati presso il Vaticano?”. La risposta del Foreign Office era stata: “Fareste bene a fare un piccolo viaggio quando il Re d’Italia visiterà Roma”. Il Re arrivò in città il 31 dicembre e fece pervenire in Vaticano una lettera molto cortese, quasi scusandosi per venire nella città che ormai era sotto la sovranità italiana. Vittorio Emanuele non volle pernottare e prima di sera riprese la via per Firenze.

Intanto il Papa sospendeva definitivamente il Concilio ecumenico vaticano, iniziato l’8 dicembre dell’anno precedente. Non trovarono però serio accoglimento le proposte degli intransigenti perché il Papa si muovesse da Roma. Delle varie ipotesi l’unica che ebbe una qualche consistenza, ma sempre a livello burocratico e senza alcun avvallo autorevole, fu il trasferimento a Malta.

Otto anni più tardi, morto Pio IX, i cardinali si trovarono nella necessità di scegliere una sede adatta per svolgere liberamente il Conclave e per un attimo si affermò l’idea di trasferire il Sacro Collegio in Spagna. Prevalse rapidamente il buon senso e senza la minima turbativa si svolse in Vaticano l’elezione del successore di Pio IX che era stato preceduto di un mese, nell’aldilà, dal suo grande antagonista Vittorio Emanuele II.

Un ciclo di storia si chiudeva in quell’inizio del ’78. Meno di cento anni più tardi la Chiesa, con l’autorevole parola di Giovanni XXIII e di Paolo VI, avrebbe benedetto il Signore per averla liberata dagli affanni del potere temporale. Si avverava quello che il 3 ottobre 1870 aveva scritto - questa volta acutamente - il corrispondente romano del “New York Times”: “il Papa, essendo solo capo della Chiesa cattolica, avrà una statura morale più grande di quella che aveva quando riuniva le cariche di Pontefice e di Sovrano di uno Stato piccolo, mal governato, e scarsamente affezionato. Molti devoti cattolici sbagliano nel ritenere il potere temporale un additivo essenziale per le funzioni spirituali. I cattolici più lungimiranti lo stimavano invece come un ostacolo per la loro Chiesa”.

Giulio Andreotti

Articolo tratto dalla Domenica del Corriere nr. 32 – Anno 72 del 11 agosto 1970.

Numero speciale dedicato ai cento anni di Porta Pia.

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Articolo pubblicato il 24/12/2020