Pistoia 2011

Un tuffo nel Medioevo (di Ezio Marinoni)

La città sembra in ferie per i giorni festivi di Pasqua.

Il bed & breakfast “Relais Buonfanti” si trova nella omonima via: è un ampio appartamento al primo piano di un antico palazzo a pochi passi dal Duomo. La padrona di casa, Lara Selmi, è la prima persona a darmi il benvenuto al mio arrivo a Pistoia; è una raffinata ospite e una guida molto informata sulla città ed i suoi dintorni; attraverso le sue parole si percepisce uno grande amore e una sconfinata passione per il luogo in cui vive.

Inizio la passeggiata per le antiche strade, cammino su lastre di pietra scavate dal tempo, tra palazzi antichi e portoni maestosi; un uscio di poco rialzato doveva essere una “porta del morto”. In molti borghi antichi sparsi nell’area compresa tra Toscana, Umbria, Marche e Lazio è comune notare, nelle abitazioni medievali, due porte che danno accesso alle strade in pendio, una ampia con il gradino basso - la porta di ingresso -, l’altra alta e angusta, oggi spesso murata, dall’accesso rialzato di circa mezzo metro rispetto al livello della strada, era denominata “ Porta del Morto”: asimmetrica rispetto alla facciata, attigua al portone principale e riconoscibile per l’arco a sesto acuto, o per l’architrave, ha da sempre incuriosito architetti, storici e turisti per la sua storia controversa.

La sua funzione era quella di facilitare l’uscita della bara del defunto, mentre durante tutti gli altri giorni dell’anno restava murata, o sprangata. La sua origine può esser fatta risalire fin agli Etruschi; rappresentava, anche in età medievale, una sorta di “limes”, di confine invalicabile tra il regno della luce e quello delle tenebre ed esprimeva l’auspicio scaramantico di mantenere separati i due mondi. Era credenza che, qualora il feretro del defunto fosse transitato per la porta principale, il suo spirito avrebbe continuato ad infestare la casa. Lo scrittore toscano Piero Bargellini, negli Anni Cinquanta del Novecento, immaginò così l’addio di Santa Chiara alla sua casa: “Chiara rimase un attimo dritta sull’alta soglia. Poi, senza neppure volgersi indietro, spiccò un salto leggero. Aveva oltrepassato la soglia del morto. Si era divisa irreparabilmente dalla famiglia. Non avrebbe fatto più ritorno alla sua casa. Chiara era perduta. Chiara era morta. Chiara andava verso una altra vita”.

Il Duomo mi appare all’improvviso, su un lato di una scenografica piazza che contiene anche il Battistero ed il Palazzo Comunale, in una perfetta impostazione architettonica toscana e medievale.

Nella navata destra riposa il poeta stilnovista Cino da Pistoia (Pistoia 1270 - 1336), e con lui risaliamo con i ricordi scolastici ai primordi della poesia italiana duecentesca. La sua famiglia, i Sighibuldi (Sigibuldi o Sigisbuldi), lo manda a Bologna per studiare diritto e per formarsi dal punto di vista letterario, per acquisire la perfetta formazione umanistica secondo i dettami di quel tempo. Amico di Dante Alighieri, nel 1302 è costretto a lasciare Pistoia a causa della sua appartenenza ai Ghibellini. È un esilio temporaneo: vi tornerà, infatti, tre anni dopo, grazie all’intervento del Marchese Moroello Malaspina, amante della poesia, mecenate che proteggeva Dante Alighieri esiliato in Lunigiana. Un verso amoroso di Cino recita così: “Se non si move d’ogni parte Amore / sì dall’amato, come dall’amante, / non può molto durar lo suo valore, / che ‘l mezzo Amor non è fermo, né stante”.

L’altare d’argento dedicato a San Jacopo induce ad una riflessione il turista attento: che cosa unisce questa città all’esistenza di Jacopo, (il Giacomo dei Vangeli), uno dei discepoli prediletti di Gesù (secondo alcuni, suo fratello di sangue e successore a capo della prima comunità apostolica di Gerusalemme). È l’inizio di un cammino italiano che collega la “piccola Santiago” (Pistoia) a Santiago di Compostela. Questo “piccolo Cammino di Santiago” è lungo poco più di cento chilometri, percorre un tratto della Via Francigena, della Via della Costa in Italia, della Via Tolosana in Francia e del Cammino di Santiago in Spagna. Nel suo dispiegarsi racchiude un concentrato di arte, storia e natura, da conquistare a piedi e scoprire. Il tratto toscano collega Firenze, Prato, Pistoia, Pescia e Lucca.

Il Battistero si eleva in posizione defilata, sulla destra della stessa piazza. All’interno, al centro, è collocata una vasca battesimale, risalente al 1226, “riscoperta” nei restauri del 1975. Agli angoli, quattro fori (o pozzetti), dei quali non si conosce la funzione originaria (si ipotizza che servissero ai sacerdoti che battezzavano, ma non vi sono documenti in merito).  Le raffinate e istoriate figure geometriche del quadrato e del cerchio che si alternano sulle pareti esterne volevano rappresentare l’unione della terra con il cielo (che avviene mediante il sacramento del battesimo), secondo la simbologia della rinascita dell’uomo nuovo che si libera dal peccato originale.

Queste figure rappresentavano l’unione della terra con il cielo, che avviene nel momento in cui si somministra il sacramento del battesimo, secondo una simbologia legata al concetto di rinascita dell’uomo nuovo liberato dal peccato originale.

Secondo giorno a Pistoia.

La Basilica della Madonna dell’Umiltà conserva all’altare maggiore l’omonima immagine affrescata.  L’attuale edificio sacro sorge sul luogo dell’antica chiesetta di Santa Maria Forisportae, così detta perché edificata all’esterno della prima cerchia di mura ed era appena al di fuori della Porta Vecchia. La chiesetta era inizialmente dedicata a Santa Maria Assunta; nel 1382 un pittore rimasto anonimo dipinge ad affresco un’immagine della Madonna dell’Umiltà, cioè non seduta in trono, secondo una iconografia che in Italia conosce una diffusione particolare proprio fra il Trecento ed il Quattrocento. Secondo la tradizione, il 17 luglio 1490 l’immagine inizia a spandere sudore dalla testa, molti testimoni invocano il miracolo e fanno suonare le campane di tutte le chiese pistoiesi. Anche nel tempo dell’Inquisizione la speranza umana sapeva guardare al cielo e cercava punti di contatto con il divino, per mitigare le durezze e le ingiustizie del transito terreno.

Nel Monastero di Santa Maria degli Angeli è attivo un laboratorio artigianale curato dalle monache benedettine, con prodotti coltivati nel loro orto. Mi fanno assaggiare un bicchierino di rosolio (una vera squisitezza, dal sapore armonioso e delicato); il suo gusto e retrogusto per un attimo hanno il potere di farmi dimenticare tutto, come in un nirvana dei sensi e della mente. Nel Monastero oltre alle attività di ricamo, bulino, pirografia e realizzazione di codici miniati, era presente da sempre una Farmacia o Spezieria in cui si producevano liquori medicinali, lattovari (composti medicamentosi con miele e zucchero) e prodotti specifici a base di “semplici”, ossia erbe medicinali coltivate nell’orto del Monastero. La svolta per la Farmacia avviene a metà dell’Ottocento, con l’inizio della produzione di un composto di erbe che assicurava una efficace cura contro i problemi causati dalla uricemia.

Il mio breve viaggio è finito. Ho respirato il clima del Medioevo, in soli due giorni a Pistoia, mi sono immerso in un passato ricchissimo di storia.

Un libro per un viaggio

Gianna Manzini, Ritratto in piedi

La scrittrice rivede la Pistoia della sua infanzia e giovinezza, le vie e le piazze, i cortei degli anarchici tra i quali c’era anche suo padre: Giuseppe Manzini (1865 – 1925), idealista, fiero, capace di rinunciare a tutto, anche alla famiglia, per il suo ideale. Ricorda la sua scelta di abbandonare l’agiatezza economica, donando il suo patrimonio in beneficenza, per dedicarsi all’umile mestiere di orologiaio. La moglie, pur essendo innamorata di lui, aveva ceduto alle spinte della famiglia benpensante e l’aveva lasciato. La piccola Gianna trascorre molto tempo con il padre: lui è il suo grande amore, il suo mito, l’uomo virtuoso per eccellenza, una lezione di vita.

La situazione cambia quando Gianna cresce e si trasferisce a Firenze con la madre, per frequentare l’Università. Nell’ebbrezza della giovinezza, arriva a vergognarsi di un padre povero e austero. Gli scrive una lettera alla settimana, eppure cerca di scacciarlo dai suoi pensieri. Gianna ricorda con struggente rimorso il non essergli stata vicino per tanti anni, soprattutto alla fine, quando il padre muore di infarto, dopo aver subito l’ennesimo attacco da parte di un manipolo di fascisti. Una storia d’amore, intrisa di una passione civile che ha molto da insegnare ai nostri giorni stanchi e disillusi.

 

@Ezio Marinoni

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Articolo pubblicato il 26/12/2020