Un sarcofago egizio nel Cimitero Monumentale di Torino

Di Riccardo Manzini

Riccardo Manzini – medico ed egittologo di lungo corso – considera in questo suo articolo il sarcofago egizio posto sulla tomba di Giuseppe Parvis, un manufatto dell’Antico Egitto che si trova nel Cimitero Monumentale di Torino.

Il dottor Manzini si è già occupato in passato di questo reperto nel libro “Un sarcofago egizio per Giuseppe Parvis” scritto in collaborazione con Anna Tozzi Di Marco (Edizioni Kemet, 2015). Il suo nuovo contributo al nostro giornale illustra ai lettori le antiche tecniche egizie per la realizzazione e per la sigillatura, la sua storia e i motivi per cui giunse a Torino, evidenziando il ruolo del piemontese Giuseppe Parvis, uno dei più grandi ebanisti di tutti i tempi, con opere esposte nei musei, attivo in Egitto nella seconda metà dell’Ottocento.

Questo antico sarcofago, posto nel Cimitero Monumentale della nostra Città, rappresenta una sorta di corollario al Museo Egizio di Torino, secondo al mondo per importanza dei reperti custoditi, e motivo di orgoglio per i torinesi (m.b.).

 

Un sarcofago egizio nel Cimitero Monumentale di Torino

 

Non molti torinesi sanno che nel nostro Cimitero Monumentale vi è un autentico sarcofago egizio di pregevole fattura e di grande interesse egittologico, noto agli studiosi di tutto il mondo ma non adeguatamente valorizzato.

Sebbene mi ritenessi un buon conoscitore dei monumenti di quel cimitero per averli ripetutamente frequentati fin da bambino, coinvolto da un adorabile zio molto “naif” che mi insegnava la storia, l’arte e la società anche attraverso quelle testimonianze e le dediche più suggestive, anch’io non sapevo nulla di questo prezioso reperto.

Venni a conoscenza di questo sarcofago solamente grazie allo stimolo del professor Curto, allora direttore del nostro Museo Egizio, che mi invitò ad esaminarlo approfonditamente per fargli una relazione e dargli un parere, in quanto non esisteva alcuna indagine scientifica a riguardo.

Se non se ne conosce l’ubicazione, trovarlo non è semplicissimo in quanto la tomba è occultata da imponenti costruzioni (slide 1), ma una volta che la si è raggiunta il sarcofago appare subito come un grande monolito di granito rosa di Aswan sorprendentemente integro e ben conservato malgrado l’esposizione alle intemperie (slide 2).

Già ad un esame superficiale è evidente che la faccia anteriore, priva di decorazioni originarie, fosse anche in origine quella “a vista”, in quanto è l’unica accuratamente squadrata e la meglio rifinita. Da ciò si deduce che, come consuetudine dell’epoca, era collocato trasversalmente in una cripta (slide 3) alla sua estremità occidentale in direzione del presunto Oltretomba egizio (slide 4).

In contrasto con la pregevole rifinitura di questa faccia ben lisciata il suo margine inferiore è irregolare e solo sgrossato, indicando che era mascherato da uno zoccolo di muratura che lo allineava al suolo. 

Sebbene sia comunque pregevole per la lavorazione e per il materiale, la sua caratteristica più interessante risiede nel coperchio, che non solo è tra i pochi conservati integri ma soprattutto presenta la interessante testimonianza di un raffinato sistema di chiusura.

Sulla sua superficie superiore vi sono infatti due fori (slide 5) che costituiscono le estremità superiori di altrettante cavità cilindriche verticali che perforano interamente il coperchio e penetrano nel basamento, le cui pareti mostrano strie orizzontali (slide 6) che testimoniano l’impiego di un trapano ad arco (slides 7-8).

Questo sistema di bloccaggio del coperchio è noto anche in altri casi, ma la sua ingegnosità merita di essere approfondita come esempio della geniale semplicità delle soluzioni escogitate dagli antichi egizi, ma anche perché costituisce un indizio per avanzare una ipotetica attribuzione.

Dopo aver deposto il defunto all’interno del sarcofago il coperchio, indirizzato dagli appositi incastri laterali (slide 9), sarebbe stato collocato in opera facendolo scorrere (slide 10a) fino ad allinearsi perfettamente con la base, per cui le cavità cilindriche praticate in esso sarebbero risultate in asse con quelle corrispondenti della base (slide 10b).

A questo punto si introducevano dall’alto in queste cavità dei cilindri di metallo, di diametro prossimo a quello delle cavità stesse ed altezza inferiore a quella del coperchio, i quali sarebbero discesi per gravità fino a rimanere a cavaliere della superficie di separazione tra la base ed il coperchio, occupando interamente la cavità nella base e parzialmente quella nel coperchio (slide 10c).

Colando dall’alto in questi cilindri resine calde, quando queste si fossero raffreddate ed avessero inglobato gli elementi metallici impedendo che potessero essere rimossi, sarebbe stato impossibile riaprire il sarcofago senza demolire il coperchio.

L’attuale integrità del coperchio indica quindi che il sarcofago non fu mai utilizzato, ma molti indizi consentono di ricostruire ipoteticamente la figura del personaggio cui era stato destinato o quanto meno di collocarlo temporalmente.

Innanzitutto, l’area archeologica di Giza da cui verosimilmente proviene è stata la necropoli regale dei sovrani della IV dinastia e le sepolture sono comunque, nella quasi totalità, collocabili nell’Antico Regno. Ma l’impiego in quel periodo di una pietra pregiata come il granito rosa per un sarcofago indica che fosse destinato ad un personaggio importante in quanto far giungere il materiale dalle cave di Aswan, site circa 800 km a Sud dell’area di Giza, richiedeva un grande impegno riservato a pochi.

Questa constatazione, la buona lavorazione, l’elaborato sistema di chiusura e molti altri indizi consentono quindi di collocare presuntivamente il destinatario tra i maggiori funzionari della IV dinastia e più specificamente tra i parenti più prossimi di Cheope o di Chefren, destinatari delle maggiori piramidi di Giza.

Definiti in questo modo gli aspetti tecnici del sarcofago, rimaneva da chiarire come e perché un tale manufatto fosse giunto a Torino e perché sia stato utilizzato come decorazione di una tomba moderna, visto che la sua bellezza ed integrità avrebbero meritato di collocarlo tra i migliori reperti dei musei di tutto il mondo.

In particolare, suscitò interesse la dedica che decora oggi la faccia anteriore della base: “A GIUSEPPE PARVIS CAVALIERE DEL LAVORO 1831-1909 – ONORÒ LA PATRIA NELLA TERRA DEI FARAONI”.

Ignorando chi fosse Giuseppe Parvis e non avendo le competenze per approfondire degnamente la questione, fu coinvolta l’antropologa Tozzi Di Marco che si appassionò alla ricostruzione della biografia del personaggio la quale fu possibile anche grazie alla disponibilità dei suoi discendenti.

Da questa indagine emerse che il Parvis (slide 11), nato nel 1831 a Breme Lomellina (all’epoca compresa nel Regno di Sardegna) e laureato all’Accademia Albertina di Belle Arti in Torino, era emigrato in Egitto con il fratello in cerca di fortuna nel 1859.

Qui fu accolto dalla eterogenea e potentissima comunità europea che occupava tutti i ruoli più importanti di quel possedimento ottomano, in quanto mandatari del Khedivé Ismail per modernizzare il Paese con interventi che interessarono ogni ambito.

Tra questi personaggi preminenti un particolare lustro ebbero numerosi esuli italiani che ricevettero gli incarichi più disparati, quali l’organizzazione delle Poste, la costruzione di palazzi e la partecipazione all’urbanizzazione di Alessandria e del Cairo.

Grazie al sostegno ottenuto dalla comunità italiana ben introdotta a corte, il Parvis ebbe presto modo di essere apprezzato per le sue qualità di ebanista raffinato e mobiliere che gli consentirono di aprire un’impresa che rapidamente si espanse divenendo una delle maggiori dei Paese. In particolare, la sua abilità di ebanista e disegnatore di mobili lo portò ad inventare uno stile moresco (slide 12) che fu all’epoca talmente apprezzato che il Khedivé gli affidò l’intero arredamento dei suoi palazzi.

La stima che Parvis godette a corte fu tale che fu invitato con i suoi arredamenti a rappresentare l’Egitto in numerose Esposizioni Universali, nelle quali conseguì prestigiosi premi (slide 13).

Grazie a questi successi la sua fama si sparse per tutto il mondo ed i suoi mobili intarsiati furono richiesti dallo Zar, da Principi di varie Case Reali, da nobili, da imprenditori ed industriali; fu particolarmente apprezzato da Giuseppe Verdi che gli commissionò gli arredi di alcune ville e della Casa di riposo per musicisti a Milano.

Durante il suo soggiorno al Cairo si occupò anche di antichità, divenendo il primo restauratore in legno di quel Museo Egizio.

In età avanzata decise di tornare in Italia cedendo l’azienda egiziana ad uno dei suoi numerosi figli, i quali raggiunsero tutti in campi diversi posizioni di prestigio nell’ambito dell’impero ottomano. Morì in Italia, a Saronno (Milano), nel 1909 a casa di un figlio.

Come apprezzamento per la sua genialità artigianale, per l’attività imprenditoriale svolta ed ancor più per il prestigio che aveva recato all’Egitto nelle esposizioni Universali, il Khedivé Ismail gli donò questo sarcofago e lo fece giungere in Italia perché ornasse la tomba di questo grande ebanista.

Sebbene infatti questa figura sia oggi pressoché dimenticata, quanto meno in Italia dove il suo nome è al più noto proprio per il sarcofago che ne decora la tomba, in testi specialistici è tuttora definito uno dei più grandi ebanisti di tutti i tempi, alcune delle cui opere sono visibili nei musei.

La ricostruzione della figura di questo geniale artigiano e del mondo in cui si trovò ad operare ha consentito di comprendere l’importanza della comunità europea nell’Egitto del XIX secolo. Il fascino di queste vicende e l’analisi dettagliata del sarcofago hanno suscitato un tale interesse che ha portato alla compilazione di un libro (Riccardo Manzini ed Anna Tozzi Di Marco, Un sarcofago egizio per Giuseppe Parvis, edizioni Kemet, Torino, 2015) in cui sono dettagliatamente riportati anche gli eventi che condussero questo prezioso sarcofago ad ornare una tomba nel nostro cimitero.

Riccardo Manzini

 

 

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Articolo pubblicato il 12/01/2021