Capo del Governo cercasi. Astenersi tecnici e globalisti

Cottarelli, Cartabia, Draghi. Perché non un nome scelto dagli italiani?

Tra le tante ipotesi che circolano in relazione alla presente crisi governativa c’è anche quella dell’incarico a una personalità “istituzionale” di alto profilo. Sono circolati alcuni nomi che però lasciano perplessi. A parte il solito Carlo Cottarelli, un evergreen valido per ogni incarico, di cui peraltro non vediamo il fascino travolgente, sono comparsi i nomi di Marta Cartabia, giurista ed ex presidente della Corte costituzionale e quello, assai più pesante, di Mario Draghi.

Lasciando da parte l’insignificante Cottarelli, ci poniamo due interrogativi. Il primo riguarda la Cartabia, che ha sostanzialmente due titoli di merito: è nella mente e nel cuore di Sergio Mattarella ed ha sicuramente una solida cultura giuridico-istituzionale. Sotto queste due caratteristiche, però, il nulla: nessuna esperienza politica, nessuna carriera gestionale, nessuna caratterizzazione ideologica, nessuna collocazione ideale, nessuna pregressa presa di posizione su qualche tema di rilievo nazionale.

E’ vero che le persone sono spesso imprevedibili, ma, per quel che riguarda questa signora, ci si chiede sinceramente che cosa potrebbe dare al paese in un momento drammatico come questo, sia in termini di concreta visione politica sia in termini di decisionismo, sia ancora in termini di spinta operativa alla macchina pubblica. Ancora una volta, si seguirebbe la via di un capo di governo non eletto, e quindi privo di legittimazione democratica, dalle caratteristiche puramente tecniche e -soprattutto- sponsorizzato da persone, forze e ambienti non limpidamente visibili.

Il secondo interrogativo riguarda, ovviamente, Mario Draghi. Intanto la sua disponibilità: è pensabile che un personaggio della sua levatura internazionale accetti di guidare una coalizione di forze politiche cieche e provinciali, votate solo alla rissa perenne, assieme a una carrettata di personaggi politici del livello che abbiamo imparato a conoscere in questi ultimi tempi?

E poi: i grandi despoti della politica europea (Merkel, Macron, Von der Leyen e gli altri) accetterebbero con entusiasmo di dover dialogare con un loro pari, in grado di tener loro testa non solo sotto l’aspetto tecnico ma anche caratteriale, piuttosto che con i mollicci e servili governanti italiani, da Conte in giù? E anche con Draghi, pur riconoscendogli il livello che gli compete, resteremmo sempre nella scia del puro tecnicismo, rappresentato -ancora una volta- da una persona senza legittimazione democratica e forse dalle dubbie capacità politiche. Governare una banca centrale è profondamente diverso dal governare una nazione, e probabilmente anche Draghi se ne rende conto.

Ma, a proposito di questa figura, ci sono almeno altre due obiezioni di peso.

Intanto non vanno dimenticate le pesanti responsabilità di Draghi in due drammatiche occasioni: il ricatto economico che la Banca centrale europea impose al governo Berlusconi nel 2011 e la svendita dei beni dello stato negli anni delle privatizzazioni. Nel primo caso, come tutti sanno, il presidente uscente della BCE Trichet e quello entrante Draghi, con una lettera congiunta del 5 agosto, intimarono a Berlusconi di avviare una serie di pesantissime scelte economiche, imposizione che concorse –assieme alle massicce vendite di titoli italiani da parte delle banche tedesche- a determinare la caduta del suo governo.

Nel secondo caso, Draghi, in qualità di direttore generale del Tesoro, fu l’iniziatore e il regista della grande campagna di vendite (svendite?) del patrimonio industriale pubblico italiano. Operazione iniziata simbolicamente dal suo discorso sul panfilo reale Britannia nel giugno del 1992. ? il liquidatore -disse Francesco Cossiga- dell’industria pubblica italiana. Da governatore del tesoro ha svenduto l’apparato produttivo statale, figuriamoci cosa potrebbe fare da Presidente del Consiglio dei Ministri”. E rincarò poi la dose definendolo “vile affarista”.

Ora, è risaputo che l’assassino raramente ritorna sul luogo del delitto e quindi l’ipotesi Draghi al governo non ci inquieta più di tanto sotto il profilo delle vendite di stato. Ci inquietano invece la sua estrazione dalla grande finanza internazionale, i suoi legami ormai consolidati con Goldman Sachs e tutto ciò che ruota attorno a quella banca gigantesca, la sua inevitabile mentalità da grande banchiere-finanziere, la sua presumibile distrazione verso la piccola attività economica, verso la visione familiare dell’impresa, verso il microcosmo dell’individuo che al mattino alza una saracinesca o va nei campi o accende i macchinari della sua fabbrichetta. Uno abituato a muoversi fra Davos Francoforte e New York non sa molto di tutto questo piccolo mondo ed è probabilmente abituato a considerarlo, letterariamente, antico, e quindi superato e improduttivo e dunque sacrificabile al totem della globalizzazione.

Chi ha avuto la pazienza di sfogliare la documentazione del settembre 2020 in preparazione del World Economic Forum che si terrà a Davos tra poco troverà proprio questo: un Grande Reset con la cancellazione della dimensione localistica della produzione e il suo assorbimento in una visione economica globalista. Una visione a volo d’aquila che però non è più in grado di scorgere i piccoli uomini e i loro drammi. Una visione dove tutto ciò che è piccolo è inefficiente e va quindi eliminato.

Una visione che ha trovato linfa nell’epidemia di Covid, un virus “atteso” che contribuirà efficacemente alla rivoluzione globale facendo felice tanta gente: Klaus Schwab, Carlo d’Inghilterra, i Rothschild, i Rockefeller, George Soros, Bill e Melinda Gates, David Solomon. E forse anche Mario Draghi, che da quel mondo proviene e da cui, probabilmente, non è mai uscito.

Abbiamo veramente bisogno di un super banchiere internazionale per salvare un’Italia morente, soprattutto nelle sue componenti più deboli, piena di negozi chiusi, di ristoranti agonizzanti, di alberghi serrati, di disoccupati in strada, di studenti chiusi in casa a, di immigrati all’arrembaggio, di pensionati che non arrivano a fine mese?

Forse no. Anche perché un Monti l’abbiamo già provato e non ce ne serve un altro.

In conclusione, scusate, forse abbiamo dimenticato un’ipotesi marginale, un po’ volgare e populista: e se provassimo a far scegliere agli italiani chi li deve governare?

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Articolo pubblicato il 15/01/2021